lunedì 17 novembre 2014

un rafaelita che non rinnega il napoli di mazzarri

Di Diego Del Pozzo

L'esonero di Walter Mazzarri da parte dell'Inter - il primo in carriera per il tecnico toscano - ha scatenato dibattiti e ironie feroci, soprattutto sul web e in particolar modo tra i tifosi nerazzurri e quelli napoletani, con i primi prontissimi a sottolineare il presunto pericolo scampato ("Libertà!", è stata l'esclamazione ricorrente) e i secondi ancora più solerti nell'attaccare il tecnico della quarta Coppa Italia, reo di essersi lasciato male con la città e con "l'ambiente" nell'estate 2013.
Io stesso, su Facebook, ci ho un po' scherzato su, semplicemente pubblicando alcuni stralci dell'indifendibile autobiografia-flop "Il meglio deve ancora venire", operazione editoriale sbagliatissima da tutti i punti di vista, giustamente snobbata dai lettori (ma io ne ho comprato una copia!!!). Però, mi sono reso conto che il mio atteggiamento poteva essere equivocato ed equiparato a quello dei troppi tifosi azzurri che, mostrando memoria corta e una certa mancanza di riconoscenza, hanno deciso quasi di azzerare quattro anni fatti, invece, di crescita costante, successi sportivi e tante emozioni.
Così, ho deciso di precisare qui, da zemaniano convinto e rafaelita ortodosso, quello che è il mio pensiero sul tanto discusso Walter Mazzarri.
Per me, Mazzarri è un ottimo allenatore e resta tale anche dopo il fallimento interista (perché tale va considerato il suo periodo in nerazzurro). Il suo approccio al calcio è maniacale, da lavoratore indefesso pronto a sacrificare tutto sull'altare del suo mestiere. Grande motivatore e buono stratega, porta avanti un'idea di calcio molto precisa e definita, tatticamente incarnata da un 3-5-2 impostato su una squadra tenuta abbastanza bassa e pronta a ripartire in micidiali contropiede, sfruttando l'atletismo degli esterni di centrocampo, gli inserimenti centrali di una delle due mezzeali e la velocità dei due attaccanti. La fase difensiva delle sue squadre si basa sulla concentrazione dei singoli e sulla densità tra i tre centrali di difesa e i due mediani di centrocampo, pronti questi ultimi a pressare gli omologhi avversari alla ricerca continua degli improvvisi rovesciamenti di fronte. Pur agendo prevalentemente di rimessa, le sue squadre sono sempre state molto produttive in attacco, mettendo costantemente gli attaccanti davanti alla porta e portandoli, quasi inevitabilmente, a finalizzare con ottimi score individuali (dai 53 gol in B di Protti-Lucarelli nel Livorno della promozione ai 35 in A di Bianchi-Amoruso nella Reggina della salvezza con penalità, fino agli exploit napoletani di Cavani). Per farli rendere al meglio, Mazzarri ha bisogno di allenare molto i suoi giocatori, da qui la sua idiosincrasia per i doppi impegni settimanali, suo limite oggettivo se si pensa a come funziona oggi il calcio di vertice.
I difetti del tecnico toscano sono altrettanto evidenti e derivano in massima parte dall'eccesso di orgoglio personale e dalla consapevolezza (giusta o sbagliata che sia) di essere molto bravo e, quindi, di meritare molto di più rispetto a tanti suoi colleghi "alla moda", in virtù di una gavetta che lo ha formato negli anni, senza fargli bruciare le tappe come capitato ad altri. Fondamentalmente, però, Mazzarri non ha il physique du role del tecnico di livello internazionale: permalosissimo, sempre sovraeccitato, spesso piagnucoloso, scostante e piuttosto antipatico, pare sempre un contadino capitato per caso nella grande città. Livornese per livornese, per fare un esempio, il "cittadino" Massimiliano Allegri possiede questo physique du role, lui originario di San Vincenzo no. E, in ambienti "forti" come quello interista, questo è stato il suo peccato originario (abbinato all'assenza di pedigree ai massimi livelli). Nei confronti dei media e degli osservatori esterni, questo limite anzitutto comunicativo non gli permette nemmeno di valorizzare al meglio quanto dice. Per capirci, se la stessa identica lamentela arbitrale viene fatta da lui e da Mourinho l'effetto all'esterno sarà diversissimo, inevitabilmente. Più che di carisma, è questione di "aura". O ce l'hai oppure non ce l'hai.
Detto tutto ciò, da zemaniano convinto e rafaelita ortodosso (lo ribadisco a scanso di equivoci), il mio giudizio sul Napoli di Mazzarri resta ampiamente positivo. I numeri dicono che nei suoi quattro anni si è visto uno tra i Napoli più forti della storia azzurra, con un secondo posto e il record di punti (78, eguagliato l'anno scorso da Benitez), la conquista della Coppa Italia, una Supercoppa italiana francamente mezza scippata, una grande Champions League disputata eliminando Manchester City e Villarreal, qualificandosi agli Ottavi assieme al Bayern Monaco e venendo eliminati soltanto ai tempi supplementari dal Chelsea futuro vincitore di quell'edizione, con imperdonabile sciupìo di occasioni da gol sia a Napoli che a Londra. Per inciso, in quella Champions, quel Napoli perse soltanto 3-2 a Monaco col Bayern - non 7-1 in casa, come qualcun altro - e 4-1 ai supplementari a Londra col Chelsea: le due finaliste di quell'edizione. E, tra gli azzurri, giocavano personaggi come Aronica, Cannavaro, Grava, per citarne soltanto tre.
I meriti di Mazzarri nella costruzione e nella gestione di quella squadra sono enormi e innegabili: Cavani centravanti lo ha inventato lui, Zuniga esterno sinistro anche, Maggio è stato il migliore nel suo ruolo in Italia, Hamsik è sbocciato sotto la sua gestione, onesti pedatori come Grava e Aronica sono stati spinti ben oltre i loro limiti evidenti, la diga di centrocampo Gargano-Pazienza ha spesso scalato l'Everest. Tra gli errori, vanno evidenziati i precocissimi accantonamenti di buoni giocatori come Edu Vargas, Federico Fernandez e - perché no? - Victor Ruiz, nessuno dei tre chiesto espressamente da lui e, dunque, mai valorizzato come sarebbe stato possibile. Poi, la gestione "provinciale" delle campagne di Europa League e la congenita incapacità di fare turnover in modo efficace tra le differenti competizioni. E, naturalmente, il modo imbarazzante nel quale ha gestito la sua uscita dal Napoli.
Sia come sia, comunque, a me gli anni di Mazzarri hanno regalato emozioni intense e tante partite memorabili. Sono coincisi con l'irruzione del nuovo Napoli di Aurelio De Laurentiis ai vertici del calcio italiano. Sono stati anni di rimonte spesso impossibili, triplette e quaterne fantastiche di Edinson Cavani (chi ricorda quella contro il Dnipro?), polemiche con le grandi tradizionali del calcio italiano e tanta adrenalina.
Poi, giunti alla soglia del livello superiore, Mazzarri ha implicitamente ammesso di non essere in grado di fare il passo finale verso la vittoria (e i 17 mesi interisti rappresentano una conferma in tal senso), mentre da parte sua la società azzurra ha capito che, per dotarsi di un profilo internazionale e provare a stabilizzarsi ai vertici, c'era bisogno di un tecnico dal profilo decisamente diverso: quello di un uomo di mondo, pluridecorato, come Rafa Benitez.
Ma Walter Mazzarri, con i suoi pregi e i suoi difetti, un posto nella storia del Napoli se lo è conquistato sul campo. E toglierglielo sarebbe ingiusto, sciocco e decisamente provinciale.
Ps: Qualche riga, per concludere, sulla famigerata autobiografia "Il meglio deve ancora venire". L'operazione è sbagliata da tutti i punti di vista, ma le colpe principali a mio avviso sono dell'editore Rizzoli e del coautore, il giornalista di Sky Alessandro Alciato, più addentro a determinati meccanismi. Dal punto di vista di Mazzarri, infatti, credo che fare questo libro gli sia servito - dal suo punto di vista del provinciale che sbarca nel salotto buono del calcio italiano - per provare a blandire i poteri forti (Sky, Rizzoli, ecc.), in modo da garantirsi un po' di tranquillità durante la sua gestione interista. E, va detto, che la pessima autobiografia un primo anno di discreta stampa a Milano glielo ha garantito. Contadino, cervello fino...
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