giovedì 4 maggio 2023

Spalletti ha proprio ragione: questo scudetto ce lo stiamo "trezziando"

Di Diego Del Pozzo


Lo ha detto ieri in conferenza stampa, Luciano Spalletti. E come dargli torto? L'allenatore del Napoli ha risposto a una domanda col sorriso sulle labbra, spiegando che questo scudetto annunciato, che arriverà prima o poi, dopo un campionato dominato dagli azzurri, l'ambiente Napoli se lo sta "trezziando". Il verbo indica il godimento prolungato e piacevolissimo di un qualcosa che si gusta pian pianino per moltiplicare il più possibile il già grande piacere derivante da una specifica esperienza. E nel corso di questa irripetibile stagione calcistica i tifosi del Napoli possono affermarlo con convinzione: questo scudetto, che potrebbe arrivare stasera o magari domenica, ce lo stiamo davvero "trezziando".

Io personalmente ho vissuto anche gli altri due scudetti azzurri, ai tempi di Diego Armando Maradona: all'epoca del primo avevo 15 anni e mezzo, mentre il secondo l'ho festeggiato  tra i 18 e i 19 anni. Oggi che ne ho più di 51 ho avuto la fortuna, trentatré anni dopo, di poter provare una sensazione inedita, credo rarissima per un tifoso di una squadra vincente: quella di riuscire a godermi una vittoria epocale non al momento del suo concretizzarsi ma già nel corso dei mesi precedenti, contrassegnati da continue esplosioni di gioia e da un certo relax dovuto alla consapevolezza di una superiorità talmente netta da sfociare in alcuni momenti del campionato quasi nel ridicolo. In effetti, mi sono convinto dello scudetto già a fine gennaio, col Napoli in fuga sicuro e le altre presunte inseguitrici a dibattersi a turno in crisi e discontinuità varie e assortite. Da allora, ho capito che sarebbe stato quasi impossibile riprendere la squadra di Spalletti.

Questa curiosa sensazione, di domenica in domenica, ha fatto sì che potessi gustarmi i successivi match di campionato del Napoli godendo al massimo del loro aspetto estetico, con poca sofferenza e con la consapevolezza che tanto in ogni partita prima o poi sarebbero arrivati i gol della vittoria azzurra. Da inizio marzo, cioè da due mesi a questa parte, la città ha deciso di esternare queste mie stesse sensazioni, evidentemente condivise da milioni di altri tifosi partenopei, vestendosi a festa e dando il via a quella che ha presto assunto i connotati di una meravigliosa festa mobile, liquida, espansa, capace di protrarsi nel corso delle settimane accompagnando le vittorie della squadra e rendendo più superabili persino i piccoli passi falsi (la sfortunatissima doppia sfida di Champions League col Milan, per esempio).

Da inizio marzo, la città si sveglia ogni mattina col sorriso, sprizzando felicità e trasmettendola alle centinaia di migliaia di turisti provenienti da tutto il mondo che ogni giorno ne affollano le strade e le piazze. L'azzurro è ovunque, nei vicoli, sui balconi, sulle facciate dei palazzi. Migliaia di scolaresche in gita (giunte soprattutto da regioni centrosettentrionali) attraversano le arterie cittadine con tantissimi ragazzi e tantissime ragazze che indossano le maglie del Napoli e che, una volta tornati a casa, probabilmente diventano testimonial viventi di quella stessa felicità provata all'ombra del Vesuvio, riportandola in famiglia e tra gli amici, magari riuscendo proprio grazie alla forza del bello e della gioia a far emergere quanto di sbagliato e di orribile vi sia in quel razzismo verso i meridionali che, purtroppo, continua a infestare gli spalti di troppi stadi del Nord Italia.

In molti hanno criticato questa festa troppo anticipata, non comprendendo che in realtà era semplicemente un modo per condividere una felicità troppo grande per essere trattenuta nel proprio animo e per restare confinata nei confini del calendario. La scelta più giusta di fronte a un percorso come quello del Napoli di quest'anno, insomma, era proprio quella di "trezziarsi" questo scudetto diluito e annunciato nel tempo e goderselo pian piano per goderselo fino in fondo e massimizzare il piacere. D'altronde, la gente di Napoli in questi mesi ha festeggiato innanzitutto la grande bellezza di una squadra che, non da quest'anno ma almeno dai tempi di Rafa Benitez, ha saputo divulgare in Italia e in Europa innanzitutto il piacere per il gioco e la felicità di vincere nel modo giusto, mentre nell'ultimo decennio il resto del calcio italiano (con poche eccezioni) continuava a consumarsi tra proteste, isterie, simulazioni, ruberìe, brutto eretto a sistema, scorrettezze varie. Naturalmente, questo "trezziamento" è stato reso possibile dal dominio assoluto del Napoli sul resto della Serie A e ha prodotto un unicum credo assoluto nella storia del calcio italiano e forse non soltanto di quello italiano. E, allora, ben venga la festa anticipata: una festa che è innanzitutto orgoglio e gioia per qualcosa di enorme e di assolutamente inatteso all'inizio della stagione calcistica. Il tempo per le analisi tecnico-tattiche arriverà. Per il momento, continuiamo a gioire e a "trezziarci" questo meraviglioso scudetto di un Napoli altrettanto meraviglioso.









 

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venerdì 27 novembre 2020

L'impatto di Maradona sull'immaginario globale e il rapporto con Napoli

Di Diego Del Pozzo

A proposito dell'impatto di Maradona sull'immaginario globale contemporaneo (dove per "contemporaneo" intendo "degli ultimi trentacinque anni"), questa è un'immagine tratta da Il sapore della ciliegia, bellissimo film del maestro iraniano Abbas Kiarostami, premiato nel 1997 con la Palma d'oro al Festival di Cannes. Il film è ambientato tra lande desolate alla periferia e nei dintorni di Teheran. Eppure, a un certo punto, in mezzo al nulla, in un angolo dell'inquadratura spunta questo poster che vale più di mille trattati sociologici.


Questo, ovviamente, è solo uno tra i tanti esempi possibili, ma mi sembra perfetto per far capire perché chi si riferisce a Maradona soltanto come al più grande calciatore della storia di questo sport continui a sbagliare per difetto. Con Maradona, dal punto di vista dell'impatto sulla propria epoca anche al di fuori del suo specifico ambito, siamo dalle parti, forse, di John Lennon e Muhammad Ali, ma onestamente non me ne vengono in mente altri.
 
Ecco, provate a pensare a questo personaggio enorme, a modo suo titanico dall'alto del suo metro e sessantacinque centimetri, e inseritelo calcisticamente - cioè per quel che riguarda il suo ambito specifico, nel quale è il più grande di tutti - in una squadra tutto sommato di secondo piano rispetto alle tradizionali big del calcio mondiale e umanamente nel contesto di una città con la quale scatta subito un'immedesimazione totale. Se mettete assieme tutti questi elementi e li shakerate ben bene tra di loro, non riuscirete comunque a capire fino in fondo, dall'esterno, che cosa sia stato e sia ancora oggi Diego Armando Maradona per Napoli e per i napoletani. Ok? 
 
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giovedì 26 novembre 2020

È morto Diego Armando Maradona: il calcio perde il suo D10S (il mio articolo scritto ieri per "Il Crivello")

Condivido anche qui l'articolo che ho scritto ieri per il quotidiano online Il Crivello sull'improvvisa morte di Diego Armando Maradona. (d.d.p.)

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Questo maledetto 2020 della pandemia da Covid-19 s’è portato via anche Diego Armando Maradona. Il più grande calciatore di tutti i tempi è morto, infatti, a soli 60 anni nella sua casa argentina di Tigre, nella provincia di Buenos Aires, dove stava trascorrendo la convalescenza dopo l’intervento chirurgico alla testa delle scorse settimane. La notizia arriva a metà pomeriggio come un fulmine a ciel sereno e, soprattutto in quella Napoli che lo aveva eletto a suo re, spacca i cuori degli appassionati di calcio e, naturalmente, dei tifosi azzurri. A stroncare l’ex fuoriclasse sarebbe stato un arresto cardiocircolatorio – ha scritto il quotidiano El Clarìn, che per primo al mondo ha battuto la notizia – con la corsa in ospedale rivelatasi, purtroppo, inutile per salvargli la vita.

Maradona aveva compiuto 60 anni il 30 ottobre ed era stato festeggiato in tutto il mondo, con messaggi di auguri arrivati da parte del gotha dello sport internazionale ma non solo dello sport (qui il bellissimo video di oltre mezz’ora con gli auguri dei big del calcio e dello sport). Quel giorno, avevo iniziato il mio articolo celebrativo per Il Crivello in modo un po’ provocatorio, scrivendo alcune righe che, conscio degli storici problemi di salute del Pibe de Oro, potevano certamente essere considerate molto “a rischio”: “Diego Armando Maradona oggi compie 60 anni. Chi lo avrebbe mai detto? Mi si perdoni l’incipit provocatorio, autorizzato però dall’irriducibile spirito autodistruttivo col quale il D10S del fútbol mondiale ha vissuto questi suoi primi sei decenni che valgono almeno tre-quattro vite normali, tanto piena, eccessiva, debordante, fantasmagorica – nel bene e nel male – è stata finora la sua esistenza“. Ecco, i 60 anni di Dieguito sono stati eccessivi, debordanti, fantasmagorici e, senza ombra di dubbio, valgono almeno tre-quattro vite normali. Personaggio bigger than life come pochi altri nella storia dello sport mondiale, Maradona ha incarnato in sé, in modo contraddittorio ed estremamente problematico, tanti uomini differenti: è stato, sul campo di calcio, un fuoriclasse straordinario, unico e irripetibile, capace di segnare in profondità la storia di questo sport e periodizzarlo tra un “prima” e un “dopo”; ma è stato anche – quant’è brutto e amaro questo verbo utilizzato al passato – un leader populista autoproclamato, un idolo globale ipermediatico, un simbolo vivente del riscatto dalla povertà, un’icòna su due gambe capace di far sorgere in suo onore un vero e proprio culto religioso (quella Iglesia maradoniana che, nel momento della sua massima diffusione, è arrivata a contare oltre 100.000 fedeli), un adorabile fuorilegge che s’è sempre schierato contro l’arroganza del potere fine a se stesso (chi ricorda le sue battaglie contro i vertici corrotti della Fifa e la fine che, poi, hanno fatto i vari Blatter e Platini?).

Santo ed eroe, dannato e ribelle, talento calcistico inimitabile (anche dal semi-clone Messi, sì), Diego Maradona è stato soprattutto, fino alla sua morte, un ragazzo fragile che ha continuato a portare dentro di sé il barrio poverissimo di Villa Fiorito che gli diede i natali nel 1960. Quella sua fragilità e quella sua incapacità di controllare fino in fondo la sua vita lo hanno portato a drogarsi – certamente limitandone le doti calcistiche, che altrimenti sarebbero state ancora più scintillanti – e gli hanno fatto commettere tanti errori, più o meno gravi, perché, parafrasando una celebre frase di un altro fuoriclasse indomabile come Zlatan Ibrahimovic, “puoi togliere il ragazzo dal barrio, ma non il barrio dal ragazzo“. Ma in tutti i suoi sbagli non c’è mai stato calcolo, perché Maradona – da autentico punk rocker quale in realtà è stato – ha sempre vissuto all’insegna del no future, gustandosi fino in fondo ogni attimo di un’esistenza all’ennesima potenza, che probabilmente avrebbe schiacciato quasi chiunque altro come ha finito per fare, fuori dal campo, anche con Diego. Il suo essere eccessivo ne ha caratterizzato anche la vita privata, nella quale è stato padre di cinque figli: Dalma e Gianinna, nate dal matrimonio con la storica compagna di vita, moglie e poi ex Claudia Villafañe; Diego junior, nato a Napoli dalla relazione con Cristiana Sinagra e poi riconosciuto nel 2007; Jana, avuta durante la relazione con Valeria Sabalaín; e Diego Fernando, nato dal rapporto con Veronica Ojeda.

Genio e sregolatezza, ma anche maledettismo epico, sono concetti che lui ha contribuito in molti modi a ridefinire, sfidando costantemente le leggi della fisica in campo (la storica punizione a due in area di rigore contro la Juventus, ancora oggi inspiegabile per come sia riuscita a finire in rete), segnando il gol del secolo (il secondo contro l’Inghilterra ai Mondiali del 1986) subito dopo aver insaccato in quello stesso match quell’ardito e clamoroso imbroglio (ma fu un atto politico) poi entrato negli annali come La mano de Diòs. Diego Armando Maradona è stato il più grande calciatore della storia del gioco nonostante se stesso. Ha saputo regalare a generazioni di appassionati e di amanti del bello gioie immense e gesti e momenti indimenticabili. Ha portato la nazionale argentina a vincere un campionato del mondo, in Messico nel 1986, con una squadra appena normale. E ne avrebbe vinto almeno un altro, in Italia quattro anni dopo, se non fosse stato letteralmente scippato da una Germania reduce dalla caduta del muro di Berlino e da una riunificazione che la Fifa aveva deciso dovesse essere celebrata anche sui campi di gioco in diretta televisiva globale. Come dite, le squalifiche per doping? Quelle le ha subìte più che davvero cercate.

Con le squadre di club, dopo gli esordi con l’Argentinos Juniors, ha vinto col Boca Juniors un campionato argentino, tre coppe con quel Barcellona che fu la prima tormentatissima tappa europea della carriera e il punto di non ritorno per quanto concerne l’iniziazione alla droga, fino all’apoteosi di Napoli, la città dalla quale fu accolto come un sovrano, nella quale effettivamente regnò per sette anni e dalla quale dovette poi fuggire di notte solo e abbandonato per liberarsi da un abbraccio che, nel corso di quell’esperienza intensissima, s’era trasformato in una morsa quasi letale. È la città che in queste ore lo celebra col lutto cittadino e con le luci dello stadio San Paolo, il suo tempio e palcoscenico (che gli potrebbe essere intitolato), accese a illuminare una notte rigata di lacrime. All’ombra del Vesuvio, Maradona è stato il leader e capitano di una squadra che fino a quel momento aveva la bacheca semivuota e che lui ha condotto a vittorie poi mai più replicate: due campionati italiani (1986-1987, 1989-1990), una Coppa Uefa (1988-1989), una Coppa Italia (1986-1987) e la Supercoppa italiana 1990. Avrebbe potuto certamente vincere molto di più, se soltanto avesse indossato la maglia di qualche club più potente, in Italia e nel resto d’Europa, ma lui quei colori azzurri come il cielo e come il mare aveva deciso di farli diventare come una seconda pelle e di trasformarli, da populista autentico quale era, in simbolo del riscatto di un Meridione storicamente umiliato e offeso nei confronti del ricco Nord industriale e “prepotente” delle varie Juventus, Milan e Inter.

Capace di risorgere ogni volta dalle proprie ceneri come la Fenice dei miti, dopo aver appeso le scarpette al chiodo s’è accompagnato negli anni con l’amico Fidel Castro (morto nel 2016 in questo stesso giorno) e con i principali capi di Stato del Sudamerica, s’è proposto persino alla guida dei movimenti anti-globalizzazione e a favore dei diseredati (lo ha raccontato molto bene il sodale Emir Kusturica nel suo film-omaggio), s’è trasformato ancora in vita in oggetto di studio in simposi universitari come il celebre Te Diegum nella sua Napoli, ma soprattutto in opera d’arte grazie agli sguardi di registi più o meno noti e importanti (dallo stesso Kusturica a Marco Risi, da Javier Vázquez a un documentarista da Oscar come Asif Kapadia, fino al superfan Paolo Sorrentino), di cantanti come Manu Chao, di poeti, letterati, fumettisti (anche italiani, come il Paolo Castaldi del poetico Diego Armando Maradona). La nazionale argentina tanto amata è riuscito anche ad allenarla, tra il 2008 e il 2010, ma in panchina non è mai riuscito nemmeno lontanamente ad avvicinarsi alla magia che sprigionava quando era lui a calcare i campi da gioco. Un cruccio probabilmente gli è rimasto dentro fino alla fine: quello di non aver mai potuto allenare il Napoli, né di aver mai ricevuto un ruolo dirigenziale anche puramente onorifico. Dal punto di vista professionale, la sua parabola terrestre s’è comunque conclusa alla guida tecnica di una squadra, seppur non di primissimo livello come l’attuale Gimnasia y Esgrima La Plata, nella primera division argentina. Ora, però, è l’ora del silenzio e delle lacrime. Gracias, campeòn, ci hai fatto sognare e ci hai reso certamente più felici.

  

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lunedì 15 giugno 2020

dries mertens e il suo record di gol in un mio articolo per "il crivello"

In attesa della finale di Coppa Italia di mercoledì sera, ho pensato di celebrare il record dei suoi 122 gol in azzurro scrivendo, per Il Crivello (il nuovo quotidiano online del quale sono vicedirettore), il mio pezzo "definitivo" su Dries Mertens. Eccolo, a questo link

giovedì 19 settembre 2019

2-0 al liverpool e partenza col botto per il napoli in champions league!

Di Diego Del Pozzo

La prima giornata della Champions League 2019-2020 (disputata tra martedì e mercoledì) ha detto alcune cose molto interessanti sulle quattro squadre italiane impegnate quest'anno nella massima competizione calcistica internazionale per club.
Il Napoli di Carlo Ancelotti - da qualche anno (dai tempi di Rafa Benitez), la più "europea" tra le compagini nostrane - prosegue sicuro nel suo percorso di crescita e batte in casa 2-0 i campioni d'Europa del Liverpool al termine di un match intenso e vibrante, oltre che di notevole livello qualitativo. La Juventus esce con un 2-2 dal difficile campo dell'Atletico Madrid (facendosi, però, rimontare due gol di vantaggio) e continua nella sua complessa trasformazione dovuta al cambio di guida tecnica da Allegri a Sarri. L'Inter di Antonio Conte delude profondamente facendosi bloccare a San Siro sul pari (1-1) dallo Slavia Praga, sulla carta certamente la squadra più debole del proprio girone (che include anche Barcellona e Borussia Dortmund!). L'Atalanta paga oltremodo lo scotto dell'esordio assoluto in Champions e si lascia travolgere (4-0) da una Dinamo Zagabria che, da un po' di anni a questa parte, non era mai andata oltre il ruolo di squadra-materasso nella fase a gironi del torneo.
Il match più bello e importante tra quelli delle italiane è stato certamente quello giocato dal Napoli contro il Liverpool, in un San Paolo finalmente rimesso a nuovo dopo gli interventi effettuati in occasione delle Universiadi di luglio. Partita seria, matura, intensa, sofferta, pienamente europea, quella disputata dagli azzurri contro i campioni d'Europa in carica, che anche al San Paolo hanno giocato con ritmi, fisicità, pressing sconosciuti in Italia, ma si sono trovati di fronte una squadra che quest'anno sembra davvero forte e ancora più convinta dei propri (tanti) mezzi; una squadra in grado di rispondere agli inglesi con la loro stessa moneta e che al 92esimo (in occasione del gol del definitivo 2-0) ancora pressava ai limiti dell'area avversaria.
Grande prova collettiva, insomma, quella offerta dagli uomini di Carlo Ancelotti, con un sontuoso Mario Rui (qui a sinistra nella foto) sorprendentemente migliore in campo faccia a faccia con lo spauracchio Salah (annullato!), con gli esordienti Meret e Di Lorenzo dotati della sicurezza e sfacciataggine di chi sembrava giocasse in Champions da anni, con Koulibaly di nuovo califfo della difesa, col solito inesauribile Allan, con un Mertens stracarico e all'argento vivo, Callejòn e Fabian Ruiz sempre professori di tecnica e tattica e col gigantesco e carismatico Fernando Llorente che, partendo dalla panchina, quest'anno potrebbe rivelarsi il tassello che mancava per completare il puzzle azzurro, oltre che dal punto di vista tecnico e atletico anche per quel che concerne la personalità e l'esperienza a livello di calcio di vertice (e Manolas, Lozano, Zielinski, Insigne e Milik saranno presto in piena forma, pronti a dare il contributo che ci si attende da calciatori del loro calibro).
La bella vittoria contro il forte Liverpool certifica, dunque, la bontà del lavoro tecnico e mentale di Ancelotti (che, a fine match, ha detto di volere "una squadra capace di fare tutto") e potrebbe essere il segnale dell'ulteriore salto di qualità del Napoli a livello europeo. Insomma, se il buongiorno si vede dal mattino...
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martedì 17 settembre 2019

calcio e cinema: parla asif kapadia, tra maradona e napoli-liverpool

Di Diego Del Pozzo

Ieri, in occasione dell'anteprima italiana a Napoli del suo atteso documentario Diego Maradona, il regista da Oscar (per Amy) Asif Kapadia s'è soffermato anche sull'attualità calcistica, in particolare sull'inizio della Champions League 2019-2020 e sul big match odierno in programma allo stadio San Paolo tra Napoli e Liverpool, la squadra per la quale batte il suo cuore di tifoso.
Il regista Asif Kapadia a Napoli durante l'anteprima italiana del suo film
Kapadia, dopo aver conosciuto molto bene Napoli e il Napoli durante gli anni di lavorazione del suo documentario su Maradona, che cosa pensa della città e della sua squadra di calcio?
"Della città mi sono letteralmente innamorato. E anche la squadra è diventata la mia preferita tra quelle italiane, tanto che sarei felicissimo se gli azzurri quest'anno riuscissero a conquistare la Serie A. Posso dire, anzi, di essere diventato tifoso del Napoli, tranne che quando gioca contro il mio Liverpool". 
Quindi, nel match d'esordio della Champions League di quest'anno non avrà dubbi sulla squadra per la quale tifare...
"No. Nonostante la simpatia per il Napoli, infatti, spero proprio che possa vincere il mio Liverpool. Lo scorso anno riuscii ad assistere alla partita d'andata sugli spalti del San Paolo e mi dispiace che quest'anno non potrò essere presente, perché dopo l'anteprima del film a Napoli devo rientrare immediatamente a Londra, per poi partire alla volta dell'Argentina, dove nei prossimi giorni è in programma l'anteprima del film a Buenos Aires e dove spero di poter contare anche sulla presenza in sala di Maradona". 
Il Liverpool è campione d'Europa in carica e quest'anno è subito ripartito alla grande. Quali sono, secondo lei, i punti di forza della squadra?
"Ce n'è uno, innanzitutto: Jurgen Klopp. Per me, lui è un allenatore straordinario, che ha cambiato il club e la squadra dall'interno, portando una ventata di novità e idee calcistiche fantastiche. Ritengo che quella con Klopp sia stata in assoluto la firma più azzeccata del Liverpool da una trentina d'anni a questa parte, sia per quanto riguarda i calciatori che gli allenatori". 
E di Ancelotti alla guida del Napoli che cosa pensa?
"Mi piace molto, è un grande allenatore con una storia importante e con alcune caratteristiche da vero vincente, prima tra tutte quella capacità unica di restare calmo e di trasmettere tranquillità all'ambiente nel quale lavora. Tra l'altro, nel mio film c'è anche un'inquadratura dell'Ancelotti calciatore, ai tempi della sua presenza nella nazionale italiana durante il Mondiale di Messico 1986". 
Oltre ad Ancelotti, nel suo documentario si vedono anche tanti altri campioni impegnati nella Serie A degli anni Ottanta, quando il campionato italiano era il più ricco e spettacolare del mondo. Rispetto ad allora, sembra passato un secolo, con la Premier League che oggi domina tra le leghe calcistiche europee e la Champions League diventata l'autentico emblema del calcio-show. Che cosa pensa del football contemporaneo?
"Gli anni Ottanta sono stati un periodo irripetibile per il calcio italiano e internazionale, perché alcune logiche del business non erano ancora state perfezionate, come invece avviene oggi. Per questo, poteva accadere che il più forte calciatore del mondo, Maradona, si trasferisse dal Barcellona in una squadra tutto sommato di secondo piano come il Napoli, o che società di provincia come Verona o Udinese riuscissero ad attrarre grandi campioni. Anche a livello europeo c'era più equilibrio e maggiori possibilità di risultati a sorpresa. Oggi, invece, i top players si trasferiscono soltanto da un top club all'altro: dal Paris Saint Germain al Real Madrid, dal Barcellona al Manchester City, dal Bayern Monaco alla Juventus, in un circolo estremamente ristretto ed elitario. E, tranne pochissime eccezioni, alla fine vincono sempre i più ricchi e potenti. E questo, onestamente, non mi piace poi così tanto". 
Lei ha spesso sottolineato le affinità tra le realtà sociali di Napoli e di Liverpool. Che cosa accomuna le due città, dunque, dal suo punto di vista?
"La gente di Napoli e di Liverpool è molto simile: sanguigna, schiettamente popolare, legatissima alle sue origini e alla sua città, pazza d'amore per il calcio e per la sua squadra. Anche per questo, forse, a Napoli mi sono subito sentito come a casa. Sono molto simili anche le brutture razziste che i tifosi partenopei e quelli dei Reds devono subire in quasi tutti gli stadi italiani e inglesi. Spero sinceramente che i napoletani non si irritino per la ricostruzione degli indimenticabili sette anni di Maradona nella loro città, perché la mia intenzione era di celebrarne la grandezza, pur senza occultarne le zone d'ombra e i lati oscuri. Se lo avessi fatto, non sarei stato un buon regista. Ma tutto ciò che ho raccontato nel mio documentario è ampiamente documentato attraverso interviste, immagini d'archivio e ricostruzioni di chi era presente all'epoca. Da parte mia, ho cercato di mettere in campo uno sguardo che fosse il più onesto possibile".
Dopo l'anteprima italiana di ieri sera, Diego Maradona di Asif Kapadia sarà nei cinema italiani come evento speciale il 23, 24 e 25 settembre, distribuito da Nexo Digital.
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mercoledì 4 settembre 2019

un nuovo libro sul calcio inglese, firmato da nicola roggero di sky

L'editore Rizzoli ha appena pubblicato questo imperdibile libro sul calcio inglese scritto da un innamorato sincero e raffinato conoscitore come Nicola Roggero, uno tra i più preparati giornalisti e telecronisti sportivi italiani e, naturalmente, una tra le voci nostrane del football d'Oltremanica su Sky.
Qui di seguito, propongo volentieri le note di presentazione del volume, direttamente dal sito ufficiale della casa editrice (
questo).
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Chiunque ami il calcio e vada ad assistere a una partita di Premier League in Inghilterra resta senza fiato. Perché lì il gioco più bello del mondo è ancor più bello: è il campionato più ricco, gli stadi sono i più spettacolari, le squadre sono al massimo livello. Ma non solo: perché quei luoghi ormai mitici – da Stamford Bridge a Wembley, da Old Trafford a Highbury – preservano una tradizione unica di vittorie e campioni, ma anche il segreto di un rapporto diretto con il pubblico che non esiste altrove.
Per tutti gli appassionati italiani che da anni seguono il football britannico in tv (in passato sulla televisione svizzera e Tele+, oggi su Sky), Nicola Roggero racconta per la prima volta tutta l’epopea di questo fenomeno, dal lontano 1888 quando il gentiluomo William McGregor diede origine al primo campionato inglese per arrivare alla finale della Champions League 2019 in cui, sbaragliate le altre rivali del resto d’Europa, si sono fronteggiate Liverpool e Tottenham.
È una cavalcata entusiasmante che passa dalle prodezze di Dixie Dean che negli anni Venti segnò 349 gol solo con la maglia dell’Everton alla tragedia del Manchester United nel ’58 (una Superga inglese), dal dominio pluridecennale in patria e in Europa del Liverpool alla parentesi oscura degli hooligans. Il tutto per approdare alla fase attuale con il passaggio dalla Football alla Premier League nel 1992, gli anni di fatica e gloria di Alex Ferguson, e la carrellata dei massimi interpreti (anche italiani) del football contemporaneo: Beckham, Shearer, Drogba e poi Vialli, Mourinho, Conte, Ancelotti, Pep Guardiola…
A dimostrazione che lo stile inglese è inimitabile. Perciò scoprirne le storie e i segreti è un modo per godere più appieno della magia del calcio.

lunedì 17 giugno 2019

sarri è un allenatore professionista, non un masaniello guevarista

Di Diego Del Pozzo
 
Durante l'epocale conferenza stampa odierna (sì, epocale; e non soltanto per il calcio italiano), Francesco Totti lo ha detto molto bene: "I presidenti passano, gli allenatori passano, i giocatori passano. Le leggende non passano". E poi ha reso il concetto ancora più chiaro: "La Roma viene prima di tutto" (qui l'intera conferenza stampa).
Le sue parole, opportunamente parafrasate, dovrebbero far fischiare le orecchie a quella parte di tifoseria e di opinione pubblica napoletane che per un anno sono state colte da isteria e cecità, anteponendo al tifo per la propria squadra il culto per la personalità di un ex allenatore che, pur avendo regalato un triennio meraviglioso e spettacolare alla guida degli azzurri (comunque senza vincere nulla), è stato trasformato in simbolo socio-politico di non si sa bene cosa, fino a esplodere fragorosamente, in questi giorni di presunti "tradimenti" (ohibò!), tra quelle stesse mani che per mesi lo avevano fatto diventare qualcosa che, in realtà, lui non era mai stato.
Alla fin fine, stiamo parlando di un allenatore, Maurizio Sarri, che sulla panchina azzurra è stato seduto per soli tre anni, seppur indimenticabili (non per ventidue, realmente rivoluzionari rispetto al passato, come Arsène Wenger all'Arsenal o per ventisette come Alex Ferguson al Manchester United). E che, sebbene abbia lasciato dietro di sé il ricordo di un gioco visto pochissime altre volte a livello di calcio italiano, dal punto di vista della proposta tecnico-tattica ha potuto certamente giovarsi della rivoluzione culturale (quella sì!) prodotta nel precedente biennio da Rafa Benitez (a onor del vero, sempre citato e ringraziato per questo da Sarri). A sua volta, peraltro, il valore del retaggio del tecnico toscano all'ombra del Vesuvio è stato suggellato dal nome "pesante" di colui che il Napoli ha scelto come suo sostituto, cioè Carlo Ancelotti, ovvero uno tra i cinque allenatori più importanti in attività. Questi sono i fatti. Tutto il resto, a mio avviso, è soltanto isteria e cecità.
Per capirci meglio: negli anni Sessanta, José Altafini ha giocato nel Napoli (e lo ha fatto alla grandissima!) per ben sette stagioni, prima di trasferirsi alla Juventus e diventare "Core 'ngrato"; e persino un monumento della juventinità come Dino Zoff è stato il portiere del Napoli per cinque lunghe stagioni, prima di essere venduto ai bianconeri quando aveva già una ventina di presenze da titolare in Nazionale ed era considerato uno tra i portieri più forti del mondo. Di Maradona, dal punto di vista dell'identificazione totale e profonda con Napoli e con la sua gente, ce n'è stato e ce ne sarà uno soltanto! E questo lo dico soprattutto a chi non ha potuto goderselo dal vivo, perché troppo piccolo o non ancora nato, ma anche a chi magari da ragazzino tifava per un'altra squadra e poi è stato folgorato in seguito dalla febbre azzurra. E anche per questo motivo, probabilmente, non riesce a mettere nella giusta prospettiva i tre anni sarriani.
Detto tutto ciò, dunque, mi piacerebbe sapere per quale motivo un allenatore ultrasessantenne come Sarri, che per decenni ha mangiato il fango delle serie minori e che è evidentemente animato da un'ambizione smisurata (e legittima, se fai quel mestiere), avrebbe dovuto rifiutare l'offerta della società più ricca, potente (anche fuori dal campo), influente, organizzata del panorama calcistico italiano, peraltro col surplus di godimento derivante dal fatto di averle fatto abiurare la linea tecnico-concettuale degli ultimi otto anni di trionfi per sposare, invece, la sua personale idea di calcio agli antipodi rispetto a quella linea tecnico-concettuale. Se quell'allenatore professionista ha cavalcato il personaggio del masaniello guevarista che qualcuno a Napoli ha voluto costruirgli addosso (o se, a un certo punto, ha iniziato davvero a credere di essere così, ma ne dubito), la colpa non è certamente sua ma di chi non ha capito in tempo a che gioco (si) stesse giocando (è il calcio-business del terzo millennio, baby!).
Quindi, senza dilungarmi oltre, per quanto mi riguarda Maurizio Sarri vada pure ad allenare la Juventus, magari riporti a Torino anche il suo amato Gonzalo Higuaìn (Cristiano Ronaldo non vede l'ora!), entri nel Palazzo del Potere dalla porta principale, dopo aver ispirato ai bambini storielle su implausibili rivoluzioni da fare con soli diciotto uomini (maddai!!!). Sappia, però, che dovrà fronteggiare un ambiente che, almeno al momento, lo odia di un odio profondo (basta farsi un giro veloce tra i siti web e le pagine social di fede juventina) e che la sua nuova società gli chiederà di vincere subito la Champions League e di farlo dando spettacolo, il tutto in un contesto tecnico-tattico, almeno al momento, lontanissimo dalle sue idee, dopo otto anni consecutivi di Conte & Allegri e di vittorie ottenute quasi sempre col cuore, la grinta, la rabbia e la determinazione (mi fermo qui...), ma con un gioco quasi sempre inguardabile e a tratti persino imbarazzante.
Da Napoli, mi piace riprendere e fare mie proprio le parole odierne di Francesco Totti, adattandole però agli azzurri: "
I presidenti passano, gli allenatori passano, i giocatori passano. Le leggende non passano. E il Napoli viene prima di tutto".
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mercoledì 29 maggio 2019

sarri alla juventus non sarebbe tradimento!

Di Diego Del Pozzo

Non capisco e non condivido l'isteria di coloro che in questi giorni urlano al tradimento per il possibile passaggio dell'attuale allenatore del Chelsea ed ex allenatore del Napoli, Maurizio Sarri, alla Juventus. Ma veramente state facendo? Ma quale tradimento!!! È un ottimo professionista che si trova di fronte a un possibile step di crescita lungo il suo percorso lavorativo. Stop!
Piuttosto, sarà divertentissimo assistere alle goffe capriole di quei tifosi juventini che, in questi anni, hanno costantemente irriso chi inseguiva il bel gioco prima di ogni altra cosa, parlando sprezzanti di "circo" e ancora poche settimane fa impegnandosi in esilaranti de profundis di quello stesso Pep Guardiola che nel frattempo vinceva (come mai nessun altro prima di lui) Premier League, F.A. Cup e League Cup nella stessa stagione calcistica.
Peraltro, dal punto di vista tecnico, l'arrivo di Sarri alla Juventus, con la conseguente e inevitabile rivoluzione concettuale dopo anni e anni di vittorie ottenute col non gioco (per non parlare d'altro), potrebbe persino rivelarsi un vantaggio per le avversarie italiane nella corsa alla vittoria in campionato, a partire da un Napoli che invece proseguirà lungo un progetto tecnico-tattico già avviato da un anno con Carlo Ancelotti.
Ps 1: Sarà particolarmente gustosa, sotto Sarri, anche la gestione del rientrante Higuaìn, soprattutto pensando all'affetto che Cristiano Ronaldo ha più volte manifestato nei suoi confronti.
Ps 2: E almeno, con Sarri, nella prossima Champions League la Juventus verrà eliminata ai quarti di finale giocando un bel calcio.

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venerdì 19 aprile 2019

un bilancio della prima stagione di ancelotti a napoli

Di Giuseppe Cascone

Dopo l'eliminazione ai quarti di finale di Europa League si è di fatto conclusa per il Napoli la stagione calcistica 2018-2019. Sarà dura assistere alle ultime sei giornate di Serie A, anche se resta qualche partita sulla carta affascinante, come quelle con Atalanta e Inter al San Paolo.
Adesso gli azzurri possono guardare al futuro e voltare pagina. Finalmente.
La stagione che volge al termine era difficile da affrontare, insidiosa, soprattutto perché seguiva la tempesta emotiva dello scudetto mancato nell'anno precedente. La vittoria a Torino contro la Juventus, esattamente un anno fa, al 90esimo minuto, poteva essere uno dei ricordi più belli di sempre per i tifosi del Napoli. Invece, oggi quel ricordo è per molti una fitta al cuore.
Il post-Sarri era complicato (e ancora non sapevamo che sarebbe stato anche un post-Hamsik...). Era complicato sul piano tattico, sul piano emotivo, sul piano del rapporto con la piazza. Il triennio sarriano aveva infatti acceso intense passioni e stava per concludersi con una vittoria miracolosa sfumata proprio sul più bello, lasciando un lungo strascico di delusione e amarezza.
Forse qualsiasi altro allenatore, dopo Sarri, sarebbe stato stritolato. Ancelotti, invece, con acume e saggezza, ha scelto una strada precisa: ha quasi subito raggiunto l'obiettivo della qualificazione in Champions League e ha fatto una bellissima figura in Europa, anche se le ultime tre partite lasciano un po' di amaro in bocca (va però ricordato che un quarto di finale con l'Arsenal di Emery sarebbe stato duro per qualsiasi squadra europea, anche per le big).
Ora il tecnico emiliano può finalmente avviare la costruzione del suo Napoli.
Quest'anno era una traversata nel deserto, si sapeva: tuttavia "traversando traversando", il Napoli è comunque arrivato secondo (chi parla di fallimento è francamente poco credibile).
L'unico appunto che si potrebbe fare al mister riguarda le sue dichiarazioni della prima parte di stagione, quando ha ripetuto più volte che l'obiettivo per il 2018-2019 era portare gli azzurri a essere competitivi fino alla fine in tutte le competizioni. Forse ci credeva davvero, forse aveva sopravvalutato la rosa o forse, più semplicemente, parlava in coerenza con la sua storia, che lo ha visto vincere quasi sempre (prima da top player, poi da top manager). Fatto sta che, in una piazza come Napoli, la creazione di queste aspettative è molto rischiosa. Probabilmente questo primo anno gli sarà servito anche a capire meglio il contesto.
Ora Ancelotti deve "scendere in campo", prendersi il Napoli, costruire la "sua" squadra.
La prossima sessione di mercato dirà molto sul futuro: servirà innalzare la qualità tecnica e il tasso di agonismo, mantenendo un occhio alla solidità del bilancio. Non sarà semplice, ma è possibile. Da stamattina comincia davvero l'era Ancelotti.
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