A proposito dell'impatto di Maradona sull'immaginario globale contemporaneo (dove per "contemporaneo" intendo "degli ultimi trentacinque anni"), questa è un'immagine tratta da Il sapore della ciliegia, bellissimo film del maestro iraniano Abbas Kiarostami, premiato nel 1997 con la Palma d'oro al Festival di Cannes. Il film è ambientato tra lande desolate alla periferia e nei dintorni di Teheran. Eppure, a un certo punto, in mezzo al nulla, in un angolo dell'inquadratura spunta questo poster che vale più di mille trattati sociologici.
Questo, ovviamente, è solo uno tra i tanti esempi possibili, ma mi sembra perfetto per far capire perché chi si riferisce a Maradona soltanto come al più grande calciatore della storia di questo sport continui a sbagliare per difetto. Con Maradona, dal punto di vista dell'impatto sulla propria epoca anche al di fuori del suo specifico ambito, siamo dalle parti, forse, di John Lennon e Muhammad Ali, ma onestamente non me ne vengono in mente altri.
Ecco, provate a pensare a questo personaggio enorme, a modo suo titanico dall'alto del suo metro e sessantacinque centimetri, e inseritelo calcisticamente - cioè per quel che riguarda il suo ambito specifico, nel quale è il più grande di tutti - in una squadra tutto sommato di secondo piano rispetto alle tradizionali big del calcio mondiale e umanamente nel contesto di una città con la quale scatta subito un'immedesimazione totale. Se mettete assieme tutti questi elementi e li shakerate ben bene tra di loro, non riuscirete comunque a capire fino in fondo, dall'esterno, che cosa sia stato e sia ancora oggi Diego Armando Maradona per Napoli e per i napoletani. Ok?
Questo maledetto 2020 della pandemia da Covid-19 s’è portato via anche Diego Armando Maradona.
Il più grande calciatore di tutti i tempi è morto, infatti, a soli 60
anni nella sua casa argentina di Tigre, nella provincia di Buenos Aires,
dove stava trascorrendo la convalescenza dopo l’intervento chirurgico alla testa delle scorse settimane. La notizia arriva a metà pomeriggio come un fulmine a ciel sereno
e, soprattutto in quella Napoli che lo aveva eletto a suo re, spacca i
cuori degli appassionati di calcio e, naturalmente, dei tifosi azzurri. A
stroncare l’ex fuoriclasse sarebbe stato un arresto cardiocircolatorio – ha scritto il quotidiano El Clarìn, che per primo al mondo ha battuto la notizia – con la corsa in ospedale rivelatasi, purtroppo, inutile per salvargli la vita.
Maradona aveva compiuto 60 anni il 30 ottobre ed era
stato festeggiato in tutto il mondo, con messaggi di auguri arrivati da
parte del gotha dello sport internazionale ma non solo dello sport (qui il bellissimo video di oltre mezz’ora con gli auguri dei big del calcio e dello sport). Quel giorno, avevo iniziato il mio articolo celebrativo per Il Crivello in modo un po’ provocatorio, scrivendo alcune righe che, conscio degli storici problemi di salute del Pibe de Oro, potevano certamente essere considerate molto “a rischio”: “Diego Armando Maradona oggi compie 60 anni.
Chi lo avrebbe mai detto? Mi si perdoni l’incipit provocatorio,
autorizzato però dall’irriducibile spirito autodistruttivo col quale il D10S del fútbol
mondiale ha vissuto questi suoi primi sei decenni che valgono almeno
tre-quattro vite normali, tanto piena, eccessiva, debordante,
fantasmagorica – nel bene e nel male – è stata finora la sua esistenza“.
Ecco, i 60 anni di Dieguito sono stati eccessivi, debordanti,
fantasmagorici e, senza ombra di dubbio, valgono almeno tre-quattro vite
normali. Personaggio bigger than life come pochi altri nella
storia dello sport mondiale, Maradona ha incarnato in sé, in modo
contraddittorio ed estremamente problematico, tanti uomini differenti: è
stato, sul campo di calcio, un fuoriclasse straordinario, unico e
irripetibile, capace di segnare in profondità la storia di questo sport e
periodizzarlo tra un “prima” e un “dopo”; ma è stato anche – quant’è
brutto e amaro questo verbo utilizzato al passato – un leader populista
autoproclamato, un idolo globale ipermediatico, un simbolo vivente del riscatto dalla povertà, un’icòna su due gambe capace di far sorgere in suo onore un vero e proprio culto religioso (quella Iglesia maradoniana
che, nel momento della sua massima diffusione, è arrivata a contare
oltre 100.000 fedeli), un adorabile fuorilegge che s’è sempre schierato
contro l’arroganza del potere fine a se stesso (chi ricorda le sue
battaglie contro i vertici corrotti della Fifa e la fine che, poi, hanno
fatto i vari Blatter e Platini?).
Santo ed eroe, dannato e ribelle, talento calcistico inimitabile
(anche dal semi-clone Messi, sì), Diego Maradona è stato soprattutto,
fino alla sua morte, un ragazzo fragile che ha continuato a portare
dentro di sé il barrio poverissimo di Villa Fiorito che gli
diede i natali nel 1960. Quella sua fragilità e quella sua incapacità di
controllare fino in fondo la sua vita lo hanno portato a drogarsi –
certamente limitandone le doti calcistiche, che
altrimenti sarebbero state ancora più scintillanti – e gli hanno fatto
commettere tanti errori, più o meno gravi, perché, parafrasando una
celebre frase di un altro fuoriclasse indomabile come Zlatan
Ibrahimovic, “puoi togliere il ragazzo dal barrio, ma non il barrio dal ragazzo“. Ma in tutti i suoi sbagli non c’è mai stato calcolo, perché Maradona – da autentico punk rocker quale in realtà è stato – ha sempre vissuto all’insegna del no future, gustandosi fino in fondo ogni attimo di un’esistenza all’ennesima potenza,
che probabilmente avrebbe schiacciato quasi chiunque altro come ha
finito per fare, fuori dal campo, anche con Diego. Il suo essere
eccessivo ne ha caratterizzato anche la vita privata, nella quale è
stato padre di cinque figli: Dalma e Gianinna, nate dal matrimonio con la storica compagna di vita, moglie e poi ex Claudia Villafañe;
Diego junior, nato a Napoli dalla relazione con Cristiana Sinagra e poi
riconosciuto nel 2007; Jana, avuta durante la relazione con Valeria
Sabalaín; e Diego Fernando, nato dal rapporto con Veronica Ojeda.
Genio e sregolatezza, ma anche maledettismo epico, sono concetti che lui ha contribuito in molti modi a ridefinire, sfidando costantemente le leggi della fisica in campo (la storica punizione a due in area di rigore contro la Juventus,
ancora oggi inspiegabile per come sia riuscita a finire in rete),
segnando il gol del secolo (il secondo contro l’Inghilterra ai Mondiali
del 1986) subito dopo aver insaccato in quello stesso match quell’ardito
e clamoroso imbroglio (ma fu un atto politico) poi entrato negli annali
come La mano de Diòs. Diego Armando Maradona è stato il più grande calciatore della storia del gioco nonostante se stesso.
Ha saputo regalare a generazioni di appassionati e di amanti del bello
gioie immense e gesti e momenti indimenticabili. Ha portato la nazionale
argentina a vincere un campionato del mondo, in Messico nel 1986,
con una squadra appena normale. E ne avrebbe vinto almeno un altro, in
Italia quattro anni dopo, se non fosse stato letteralmente scippato da
una Germania reduce dalla caduta del muro di Berlino e da una
riunificazione che la Fifa aveva deciso dovesse essere celebrata anche
sui campi di gioco in diretta televisiva globale. Come dite, le squalifiche per doping? Quelle le ha subìte più che davvero cercate.
Con le squadre di club, dopo gli esordi con l’Argentinos Juniors, ha vinto col Boca Juniors un campionato argentino, tre coppe con quel Barcellona
che fu la prima tormentatissima tappa europea della carriera e il punto
di non ritorno per quanto concerne l’iniziazione alla droga, fino
all’apoteosi di Napoli, la città dalla quale fu accolto
come un sovrano, nella quale effettivamente regnò per sette anni e
dalla quale dovette poi fuggire di notte solo e abbandonato per
liberarsi da un abbraccio che, nel corso di quell’esperienza
intensissima, s’era trasformato in una morsa quasi letale. È la città
che in queste ore lo celebra col lutto cittadino e con
le luci dello stadio San Paolo, il suo tempio e palcoscenico (che gli
potrebbe essere intitolato), accese a illuminare una notte rigata di
lacrime. All’ombra del Vesuvio, Maradona è stato il
leader e capitano di una squadra che fino a quel momento aveva la
bacheca semivuota e che lui ha condotto a vittorie poi mai più
replicate: due campionati italiani (1986-1987, 1989-1990), una Coppa
Uefa (1988-1989), una Coppa Italia (1986-1987) e la Supercoppa italiana
1990. Avrebbe potuto certamente vincere molto di più,
se soltanto avesse indossato la maglia di qualche club più potente, in
Italia e nel resto d’Europa, ma lui quei colori azzurri come il cielo e
come il mare aveva deciso di farli diventare come una seconda pelle e di
trasformarli, da populista autentico quale era, in simbolo del riscatto di un Meridione storicamente umiliato e offeso nei confronti del ricco Nord industriale e “prepotente” delle varie Juventus, Milan e Inter.
Capace di risorgere ogni volta dalle proprie ceneri come la Fenice
dei miti, dopo aver appeso le scarpette al chiodo s’è accompagnato negli
anni con l’amico Fidel Castro (morto nel 2016 in
questo stesso giorno) e con i principali capi di Stato del Sudamerica,
s’è proposto persino alla guida dei movimenti anti-globalizzazione e a
favore dei diseredati (lo ha raccontato molto bene il sodale Emir Kusturica nel suo film-omaggio), s’è trasformato ancora in vita in oggetto di studio in simposi universitari come il celebre Te Diegum nella sua Napoli, ma soprattutto in opera d’arte grazie agli sguardi di registi più o meno noti e importanti (dallo stesso Kusturica aMarco Risi, da Javier Vázquez a un documentarista da Oscar come Asif Kapadia, fino al superfan Paolo Sorrentino), di cantanti come Manu Chao, di poeti, letterati, fumettisti (anche italiani, come il Paolo Castaldi del poetico Diego Armando Maradona).
La nazionale argentina tanto amata è riuscito anche ad allenarla, tra
il 2008 e il 2010, ma in panchina non è mai riuscito nemmeno
lontanamente ad avvicinarsi alla magia che sprigionava
quando era lui a calcare i campi da gioco. Un cruccio probabilmente gli è
rimasto dentro fino alla fine: quello di non aver mai potuto allenare
il Napoli, né di aver mai ricevuto un ruolo dirigenziale anche puramente
onorifico. Dal punto di vista professionale, la sua parabola terrestre
s’è comunque conclusa alla guida tecnica di una squadra, seppur non di
primissimo livello come l’attuale Gimnasia y Esgrima La Plata, nella primera division argentina. Ora, però, è l’ora del silenzio e delle lacrime. Gracias, campeòn, ci hai fatto sognare e ci hai reso certamente più felici.
In attesa della finale di Coppa Italia di mercoledì sera, ho pensato di
celebrare il record dei suoi 122 gol in azzurro scrivendo, per Il Crivello (il nuovo quotidiano online del quale sono vicedirettore), il mio pezzo "definitivo" su Dries Mertens. Eccolo, a questo link.
La prima giornata della Champions League 2019-2020 (disputata tra martedì e mercoledì) ha detto alcune cose molto interessanti sulle quattro squadre italiane impegnate quest'anno nella massima competizione calcistica internazionale per club. Il Napoli di Carlo Ancelotti - da qualche anno (dai tempi di Rafa Benitez), la più "europea" tra le compagini nostrane - prosegue sicuro nel suo percorso di crescita e batte in casa 2-0 i campioni d'Europa del Liverpool al termine di un match intenso e vibrante, oltre che di notevole livello qualitativo. La Juventus esce con un 2-2 dal difficile campo dell'Atletico Madrid (facendosi, però, rimontare due gol di vantaggio) e continua nella sua complessa trasformazione dovuta al cambio di guida tecnica da Allegri a Sarri. L'Inter di Antonio Conte delude profondamente facendosi bloccare a San Siro sul pari (1-1) dallo Slavia Praga, sulla carta certamente la squadra più debole del proprio girone (che include anche Barcellona e Borussia Dortmund!). L'Atalanta paga oltremodo lo scotto dell'esordio assoluto in Champions e si lascia travolgere (4-0) da una Dinamo Zagabria che, da un po' di anni a questa parte, non era mai andata oltre il ruolo di squadra-materasso nella fase a gironi del torneo.
Il match più bello e importante tra quelli delle italiane è stato certamente quello giocato dal Napoli contro il Liverpool, in un San Paolo finalmente rimesso a nuovo dopo gli interventi effettuati in occasione delle Universiadi di luglio. Partita seria, matura, intensa, sofferta, pienamente europea, quella disputata dagli azzurri contro i campioni d'Europa in carica, che anche al San Paolo hanno giocato con ritmi, fisicità, pressing sconosciuti in Italia, ma si sono trovati di fronte una squadra che quest'anno sembra davvero forte e ancora più convinta dei propri (tanti) mezzi; una squadra in grado di rispondere agli inglesi con la loro stessa moneta e che al 92esimo (in occasione del gol del definitivo 2-0) ancora pressava ai limiti dell'area avversaria.
Grande prova collettiva, insomma, quella offerta dagli uomini di Carlo Ancelotti, con un sontuoso Mario Rui (qui a sinistra nella foto) sorprendentemente migliore in campo faccia a faccia con lo spauracchio Salah (annullato!), con gli esordienti Meret e Di Lorenzo dotati della sicurezza e sfacciataggine di chi sembrava giocasse in Champions da anni, con Koulibaly di nuovo califfo della difesa, col solito inesauribile Allan, con un Mertens stracarico e all'argento vivo, Callejòn e Fabian Ruiz sempre professori di tecnica e tattica e col gigantesco e carismatico Fernando Llorente che, partendo dalla panchina, quest'anno potrebbe rivelarsi il tassello che mancava per completare il puzzle azzurro, oltre che dal punto di vista tecnico e atletico anche per quel che concerne la personalità e l'esperienza a livello di calcio di vertice (e Manolas, Lozano, Zielinski, Insigne e Milik saranno presto in piena forma, pronti a dare il contributo che ci si attende da calciatori del loro calibro). La bella vittoria contro il forte Liverpool certifica, dunque, la bontà del lavoro tecnico e mentale di Ancelotti (che, a fine match, ha detto di volere "una squadra capace di fare tutto") e potrebbe essere il segnale dell'ulteriore salto di qualità del Napoli a livello europeo. Insomma, se il buongiorno si vede dal mattino...
Ieri, in occasione dell'anteprima italiana a Napoli del suo atteso documentario Diego Maradona, il regista da Oscar (per Amy) Asif Kapadia s'è soffermato anche sull'attualità calcistica, in particolare sull'inizio della Champions League 2019-2020 e sul big match odierno in programma allo stadio San Paolo tra Napoli e Liverpool, la squadra per la quale batte il suo cuore di tifoso.
Il regista Asif Kapadia a Napoli durante l'anteprima italiana del suo film
Kapadia, dopo aver conosciuto molto bene Napoli e il Napoli durante gli anni di lavorazione del suo documentario su Maradona, che cosa pensa della città e della sua squadra di calcio?
"Della città mi sono letteralmente innamorato. E anche la squadra è diventata la mia preferita tra quelle italiane, tanto che sarei felicissimo se gli azzurri quest'anno riuscissero a conquistare la Serie A. Posso dire, anzi, di essere diventato tifoso del Napoli, tranne che quando gioca contro il mio Liverpool". Quindi, nel match d'esordio della Champions League di quest'anno non avrà dubbi sulla squadra per la quale tifare...
"No. Nonostante la simpatia per il Napoli, infatti, spero proprio che possa vincere il mio Liverpool. Lo scorso anno riuscii ad assistere alla partita d'andata sugli spalti del San Paolo e mi dispiace che quest'anno non potrò essere presente, perché dopo l'anteprima del film a Napoli devo rientrare immediatamente a Londra, per poi partire alla volta dell'Argentina, dove nei prossimi giorni è in programma l'anteprima del film a Buenos Aires e dove spero di poter contare anche sulla presenza in sala di Maradona". Il Liverpool è campione d'Europa in carica e quest'anno è subito ripartito alla grande. Quali sono, secondo lei, i punti di forza della squadra?
"Ce n'è uno, innanzitutto: Jurgen Klopp. Per me, lui è un allenatore straordinario, che ha cambiato il club e la squadra dall'interno, portando una ventata di novità e idee calcistiche fantastiche. Ritengo che quella con Klopp sia stata in assoluto la firma più azzeccata del Liverpool da una trentina d'anni a questa parte, sia per quanto riguarda i calciatori che gli allenatori". E di Ancelotti alla guida del Napoli che cosa pensa?
"Mi piace molto, è un grande allenatore con una storia importante e con alcune caratteristiche da vero vincente, prima tra tutte quella capacità unica di restare calmo e di trasmettere tranquillità all'ambiente nel quale lavora. Tra l'altro, nel mio film c'è anche un'inquadratura dell'Ancelotti calciatore, ai tempi della sua presenza nella nazionale italiana durante il Mondiale di Messico 1986". Oltre ad Ancelotti, nel suo documentario si vedono anche tanti altri campioni impegnati nella Serie A degli anni Ottanta, quando il campionato italiano era il più ricco e spettacolare del mondo. Rispetto ad allora, sembra passato un secolo, con la Premier League che oggi domina tra le leghe calcistiche europee e la Champions League diventata l'autentico emblema del calcio-show. Che cosa pensa del football contemporaneo?
"Gli anni Ottanta sono stati un periodo irripetibile per il calcio italiano e internazionale, perché alcune logiche del business non erano ancora state perfezionate, come invece avviene oggi. Per questo, poteva accadere che il più forte calciatore del mondo, Maradona, si trasferisse dal Barcellona in una squadra tutto sommato di secondo piano come il Napoli, o che società di provincia come Verona o Udinese riuscissero ad attrarre grandi campioni. Anche a livello europeo c'era più equilibrio e maggiori possibilità di risultati a sorpresa. Oggi, invece, i top players si trasferiscono soltanto da un top club all'altro: dal Paris Saint Germain al Real Madrid, dal Barcellona al Manchester City, dal Bayern Monaco alla Juventus, in un circolo estremamente ristretto ed elitario. E, tranne pochissime eccezioni, alla fine vincono sempre i più ricchi e potenti. E questo, onestamente, non mi piace poi così tanto". Lei ha spesso sottolineato le affinità tra le realtà sociali di Napoli e di Liverpool. Che cosa accomuna le due città, dunque, dal suo punto di vista?
"La gente di Napoli e di Liverpool è molto simile: sanguigna, schiettamente popolare, legatissima alle sue origini e alla sua città, pazza d'amore per il calcio e per la sua squadra. Anche per questo, forse, a Napoli mi sono subito sentito come a casa. Sono molto simili anche le brutture razziste che i tifosi partenopei e quelli dei Reds devono subire in quasi tutti gli stadi italiani e inglesi. Spero sinceramente che i napoletani non si irritino per la ricostruzione degli indimenticabili sette anni di Maradona nella loro città, perché la mia intenzione era di celebrarne la grandezza, pur senza occultarne le zone d'ombra e i lati oscuri. Se lo avessi fatto, non sarei stato un buon regista. Ma tutto ciò che ho raccontato nel mio documentario è ampiamente documentato attraverso interviste, immagini d'archivio e ricostruzioni di chi era presente all'epoca. Da parte mia, ho cercato di mettere in campo uno sguardo che fosse il più onesto possibile".
Dopo l'anteprima italiana di ieri sera, Diego Maradona di Asif Kapadia sarà nei cinema italiani come evento speciale il 23, 24 e 25 settembre, distribuito da Nexo Digital.
L'editore Rizzoli ha appena pubblicato questo imperdibile libro sul calcio inglese scritto da un innamorato sincero e raffinato conoscitore come Nicola Roggero, uno tra i più preparati giornalisti e telecronisti sportivi italiani e, naturalmente, una tra le voci nostrane del football d'Oltremanica su Sky. Qui di seguito, propongo volentieri le note di presentazione del volume, direttamente dal sito ufficiale della casa editrice (questo). ---------------------------------------------------------------------- Chiunque ami il calcio e vada ad assistere a una partita di Premier League in Inghilterra resta senza fiato. Perché lì il gioco più bello del mondo è ancor più bello: è il campionato più ricco, gli stadi sono i più spettacolari, le squadre sono al massimo livello. Ma non solo: perché quei luoghi ormai mitici – da Stamford Bridge a Wembley, da Old Trafford a Highbury – preservano una tradizione unica di vittorie e campioni, ma anche il segreto di un rapporto diretto con il pubblico che non esiste altrove. Per tutti gli appassionati italiani che da anni seguono il football britannico in tv (in passato sulla televisione svizzera e Tele+, oggi su Sky), Nicola Roggero racconta per la prima volta tutta l’epopea di questo fenomeno, dal lontano 1888 quando il gentiluomo William McGregor diede origine al primo campionato inglese per arrivare alla finale della Champions League 2019 in cui, sbaragliate le altre rivali del resto d’Europa, si sono fronteggiate Liverpool e Tottenham. È una cavalcata entusiasmante che passa dalle prodezze di Dixie Dean che negli anni Venti segnò 349 gol solo con la maglia dell’Everton alla tragedia del Manchester United nel ’58 (una Superga inglese), dal dominio pluridecennale in patria e in Europa del Liverpool alla parentesi oscura degli hooligans. Il tutto per approdare alla fase attuale con il passaggio dalla Football alla Premier League nel 1992, gli anni di fatica e gloria di Alex Ferguson, e la carrellata dei massimi interpreti (anche italiani) del football contemporaneo: Beckham, Shearer, Drogba e poi Vialli, Mourinho, Conte, Ancelotti, Pep Guardiola… A dimostrazione che lo stile inglese è inimitabile. Perciò scoprirne le storie e i segreti è un modo per godere più appieno della magia del calcio.
Durante l'epocale conferenza stampa odierna (sì, epocale; e non soltanto per il calcio italiano), Francesco Totti lo ha detto molto bene: "I presidenti passano, gli allenatori passano, i giocatori passano. Le leggende non passano". E poi ha reso il concetto ancora più chiaro: "La Roma viene prima di tutto" (qui l'intera conferenza stampa).
Le sue parole, opportunamente parafrasate, dovrebbero far fischiare le orecchie a quella parte di tifoseria e di opinione pubblica napoletane che per un anno sono state colte da isteria e cecità, anteponendo al tifo per la propria squadra il culto per la personalità di un ex allenatore che, pur avendo regalato un triennio meraviglioso e spettacolare alla guida degli azzurri (comunque senza vincere nulla), è stato trasformato in simbolo socio-politico di non si sa bene cosa, fino a esplodere fragorosamente, in questi giorni di presunti "tradimenti" (ohibò!), tra quelle stesse mani che per mesi lo avevano fatto diventare qualcosa che, in realtà, lui non era mai stato.
Alla fin fine, stiamo parlando di un allenatore, Maurizio Sarri, che sulla panchina azzurra è stato seduto per soli tre anni, seppur indimenticabili (non per ventidue, realmente rivoluzionari rispetto al passato, come Arsène Wenger all'Arsenal o per ventisette come Alex Ferguson al Manchester United). E che, sebbene abbia lasciato dietro di sé il ricordo di un gioco visto pochissime altre volte a livello di calcio italiano, dal punto di vista della proposta tecnico-tattica ha potuto certamente giovarsi della rivoluzione culturale (quella sì!) prodotta nel precedente biennio da Rafa Benitez (a onor del vero, sempre citato e ringraziato per questo da Sarri). A sua volta, peraltro, il valore del retaggio del tecnico toscano all'ombra del Vesuvio è stato suggellato dal nome "pesante" di colui che il Napoli ha scelto come suo sostituto, cioè Carlo Ancelotti, ovvero uno tra i cinque allenatori più importanti in attività. Questi sono i fatti. Tutto il resto, a mio avviso, è soltanto isteria e cecità.
Per capirci meglio: negli anni Sessanta, José Altafini ha giocato nel Napoli (e lo ha fatto alla grandissima!) per ben sette stagioni, prima di trasferirsi alla Juventus e diventare "Core 'ngrato"; e persino un monumento della juventinità come Dino Zoff è stato il portiere del Napoli per cinque lunghe stagioni, prima di essere venduto ai bianconeri quando aveva già una ventina di presenze da titolare in Nazionale ed era considerato uno tra i portieri più forti del mondo. Di Maradona, dal punto di vista dell'identificazione totale e profonda con Napoli e con la sua gente, ce n'è stato e ce ne sarà uno soltanto! E questo lo dico soprattutto a chi non ha potuto goderselo dal vivo, perché troppo piccolo o non ancora nato, ma anche a chi magari da ragazzino tifava per un'altra squadra e poi è stato folgorato in seguito dalla febbre azzurra. E anche per questo motivo, probabilmente, non riesce a mettere nella giusta prospettiva i tre anni sarriani.
Detto tutto ciò, dunque, mi piacerebbe sapere per quale motivo un allenatore ultrasessantenne come Sarri, che per decenni ha mangiato il fango delle serie minori e che è evidentemente animato da un'ambizione smisurata (e legittima, se fai quel mestiere), avrebbe dovuto rifiutare l'offerta della società più ricca, potente (anche fuori dal campo), influente, organizzata del panorama calcistico italiano, peraltro col surplus di godimento derivante dal fatto di averle fatto abiurare la linea tecnico-concettuale degli ultimi otto anni di trionfi per sposare, invece, la sua personale idea di calcio agli antipodi rispetto a quella linea tecnico-concettuale. Se quell'allenatore professionista ha cavalcato il personaggio del masaniello guevarista che qualcuno a Napoli ha voluto costruirgli addosso (o se, a un certo punto, ha iniziato davvero a credere di essere così, ma ne dubito), la colpa non è certamente sua ma di chi non ha capito in tempo a che gioco (si) stesse giocando (è il calcio-business del terzo millennio, baby!).
Quindi, senza dilungarmi oltre, per quanto mi riguarda Maurizio Sarri vada pure ad allenare la Juventus, magari riporti a Torino anche il suo amato Gonzalo Higuaìn (Cristiano Ronaldo non vede l'ora!), entri nel Palazzo del Potere dalla porta principale, dopo aver ispirato ai bambini storielle su implausibili rivoluzioni da fare con soli diciotto uomini (maddai!!!). Sappia, però, che dovrà fronteggiare un ambiente che, almeno al momento, lo odia di un odio profondo (basta farsi un giro veloce tra i siti web e le pagine social di fede juventina) e che la sua nuova società gli chiederà di vincere subito la Champions League e di farlo dando spettacolo, il tutto in un contesto tecnico-tattico, almeno al momento, lontanissimo dalle sue idee, dopo otto anni consecutivi di Conte & Allegri e di vittorie ottenute quasi sempre col cuore, la grinta, la rabbia e la determinazione (mi fermo qui...), ma con un gioco quasi sempre inguardabile e a tratti persino imbarazzante. Da Napoli, mi piace riprendere e fare mie proprio le parole odierne di Francesco Totti, adattandole però agli azzurri: "I presidenti
passano, gli allenatori passano, i giocatori passano. Le leggende non
passano. E il Napoli viene
prima di tutto".
Non capisco e non condivido l'isteria di coloro che in questi giorni urlano al tradimento per il possibile passaggio dell'attuale allenatore del Chelsea ed ex allenatore del Napoli, Maurizio Sarri, alla Juventus. Ma veramente state facendo? Ma quale tradimento!!! È un ottimo professionista che si trova di fronte a un possibile step di crescita lungo il suo percorso lavorativo. Stop!
Piuttosto, sarà divertentissimo assistere alle goffe capriole di quei tifosi juventini che, in questi anni, hanno costantemente irriso chi inseguiva il bel gioco prima di ogni altra cosa, parlando sprezzanti di "circo" e ancora poche settimane fa impegnandosi in esilaranti de profundis di quello stesso Pep Guardiola che nel frattempo vinceva (come mai nessun altro prima di lui) Premier League, F.A. Cup e League Cup nella stessa stagione calcistica.
Peraltro, dal punto di vista tecnico, l'arrivo di Sarri alla Juventus, con la conseguente e inevitabile rivoluzione concettuale dopo anni e anni di vittorie ottenute col non gioco (per non parlare d'altro), potrebbe persino rivelarsi un vantaggio per le avversarie italiane nella corsa alla vittoria in campionato, a partire da un Napoli che invece proseguirà lungo un progetto tecnico-tattico già avviato da un anno con Carlo Ancelotti.
Ps 1: Sarà particolarmente gustosa, sotto Sarri, anche la gestione del rientrante Higuaìn, soprattutto pensando all'affetto che Cristiano Ronaldo ha più volte manifestato nei suoi confronti.
Ps 2: E almeno, con Sarri, nella prossima Champions League la Juventus verrà eliminata ai quarti di finale giocando un bel calcio.
Dopo l'eliminazione ai quarti di finale di Europa League si è di fatto conclusa per il Napoli la stagione calcistica 2018-2019. Sarà dura assistere alle ultime sei giornate di Serie A, anche se resta qualche partita sulla carta affascinante, come quelle con Atalanta e Inter al San Paolo. Adesso gli azzurri possono guardare al futuro e voltare pagina. Finalmente. La stagione che volge al termine era difficile da affrontare, insidiosa, soprattutto perché seguiva la tempesta emotiva dello scudetto mancato nell'anno precedente. La vittoria a Torino contro la Juventus, esattamente un anno fa, al 90esimo minuto, poteva essere uno dei ricordi più belli di sempre per i tifosi del Napoli. Invece, oggi quel ricordo è per molti una fitta al cuore. Il post-Sarri era complicato (e ancora non sapevamo che sarebbe stato anche un post-Hamsik...). Era complicato sul piano tattico, sul piano emotivo, sul piano del rapporto con la piazza. Il triennio sarriano aveva infatti acceso intense passioni e stava per concludersi con una vittoria miracolosa sfumata proprio sul più bello, lasciando un lungo strascico di delusione e amarezza. Forse qualsiasi altro allenatore, dopo Sarri, sarebbe stato stritolato. Ancelotti, invece, con acume e saggezza, ha scelto una strada precisa: ha quasi subito raggiunto l'obiettivo della qualificazione in Champions League e ha fatto una bellissima figura in Europa, anche se le ultime tre partite lasciano un po' di amaro in bocca (va però ricordato che un quarto di finale con l'Arsenal di Emery sarebbe stato duro per qualsiasi squadra europea, anche per le big). Ora il tecnico emiliano può finalmente avviare la costruzione del suo Napoli. Quest'anno era una traversata nel deserto, si sapeva: tuttavia "traversando traversando", il Napoli è comunque arrivato secondo (chi parla di fallimento è francamente poco credibile). L'unico appunto che si potrebbe fare al mister riguarda le sue dichiarazioni della prima parte di stagione, quando ha ripetuto più volte che l'obiettivo per il 2018-2019 era portare gli azzurri a essere competitivi fino alla fine in tutte le competizioni. Forse ci credeva davvero, forse aveva sopravvalutato la rosa o forse, più semplicemente, parlava in coerenza con la sua storia, che lo ha visto vincere quasi sempre (prima da top player, poi da top manager). Fatto sta che, in una piazza come Napoli, la creazione di queste aspettative è molto rischiosa. Probabilmente questo primo anno gli sarà servito anche a capire meglio il contesto. Ora Ancelotti deve "scendere in campo", prendersi il Napoli, costruire la "sua" squadra. La prossima sessione di mercato dirà molto sul futuro: servirà innalzare la qualità tecnica e il tasso di agonismo, mantenendo un occhio alla solidità del bilancio. Non sarà semplice, ma è possibile. Da stamattina comincia davvero l'era Ancelotti.
13 novembre 2017: Italia-Svezia 0-0 e azzurri fuori dai Mondiali per la prima volta dal 1958
22 aprile 2018: grazie a un magnifico gol di testa di Koulibaly, il Napoli allenato da Maurizio Sarri batte in casa sua una Juventus atleticamente a pezzi (zero tiri nello specchio della porta avversaria) e riapre la Serie A riportandosi a un solo punto di distacco dai bianconeri. L'impressione di tutti gli osservatori è che l'inerzia, a quattro giornate dalla conclusione del campionato italiano, sia tutta a favore dei partenopei.
28 aprile 2018: l'arbitro Daniele Orsato pone fine alla sua carriera ad alto livello con una disastrosa prestazione in un match decisivo per la Serie A 2017-2018 come Inter-Juventus, espellendo per errore il nerazzurro Vecino e graziando ripetutamente alcuni calciatori bianconeri (Alex Sandro, Barzagli e due volte Pjanic). Nel finale, una Juventus in evidenti difficoltà atletiche, con l'inerzia del match a favore dell'Inter, sfrutta la superiorità numerica e rimonta da 1-2 a 3-2 al 90esimo, portandosi e +4 sul Napoli secondo e sferrando una mazzata mortale al morale dei partenopei.
6 maggio 2018: un Napoli ancora col morale a pezzi, dopo gli eventi di Inter-Juventus della settimana precedente, pareggia 2-2 in casa col Torino e, anche senza la certezza matematica, alza bandiera bianca nei confronti della Juventus. Al termine del campionato, gli uomini di Sarri totalizzano ben 91 punti in classifica, nuovo record per la società, piazzandosi a quattro lunghezze dai neo-campioni d'Italia.
Stagione 2018-2019: dopo tre anni magnifici (seppur privi di trofei) sotto la guida tecnica di Maurizio Sarri, il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis mette sotto contratto Carlo Ancelotti, per provare ad alzare l'asticella. La Juventus risponde con l'acquisto di Cristiano Ronaldo e con una campagna acquisti costosissima (Cancelo, Emre Can, Perin, tra gli altri) che rende persino superflua la disputa del campionato di Serie A, in pratica già assegnato fin da agosto 2018. La scommessa della dirigenza bianconera è quella di puntare alla conquista della Champions League, con una rosa tra le più attrezzate a livello europeo. La scommessa si rivela fallimentare ad aprile 2019, quando il giovane e sbarazzino Ajax domina la Juventus e la elimina già nei quarti di finale, costringendo un intero movimento calcistico - quello italiano - a porsi delle serissime domande sul reale livello della sua società più rappresentativa.
Febbraio 2019: a calciomercato già chiuso, il Napoli asseconda la volontà del suo capitano e leader Marek Hamsik (mai ripresosi dallo shock dello scudetto perso l'anno prima anche grazie all'arbitraggio di Orsato in Inter-Juventus) di tentare una nuova avventura sportiva (con tanto di contratto-monstre) e accetta di cederlo alla squadra cinese del Dalian Yifang, dopo dodici anni in maglia azzurra contrassegnati dai record di presenze e gol nella storia azzurra. La stagione del Napoli, in pratica, si conclude in questo momento.
"Segnalo volentieri il tuo blog, misurato e ben scritto" (Andrea Aloi, "Guerin Sportivo" n.° 26/1754, 30 giugno-6 luglio 2009, pag. 81)
calciopassioni
Il calcio come passione, ma anche come fenomeno sociale da analizzare per capirne di più sul mondo che ci circonda: storie del presente e del passato, miti ma anche nomi dimenticati. Assieme al calcio, che per "fede" significa Napoli (e poi Arsenal), ci sono anche passioni come il cinema, la musica (rock e jazz, soprattutto), i fumetti, le serie tv, i libri e tutto ciò che rende più piacevole la vita quotidiana
In questo luogo virtuale scrivo solo per passione, non per professione come faccio quotidianamente. Perciò, mi occuperò soltanto di ciò che ritengo appassionante, divertente, stimolante, interessante.
In attesa della finale di Coppa Italia di mercoledì sera, ho pensato di celebrare il record dei suoi 122 gol in azzurro scrivendo, per ...
un po' di pubblicità
Diego Del Pozzo e Vincenzo Esposito (a cura di) Il cinema secondo Springsteen
Collana visionirock Quaderni di Cinemasud per Mephite edizioni 240 pagine, 12 euro
Quarta di copertina
Il rapporto tra Bruce Springsteen e il cinema è affascinante e complesso. E non può essere ridotto alla presenza del rocker del New Jersey nei film, in veste di attore o autore di brani da colonna sonora, come accade per Elvis, Beatles, Rolling Stones, Dylan o Bowie. Il caso di Springsteen è diverso, persino unico, per la profonda influenza che il patrimonio culturale del cinema americano ha esercitato sulla sua scrittura estremamente “visiva”; ma anche per come egli stesso ha ispirato tanti film e cineasti con “pezzi di immaginario” derivanti dalla sua produzione. Si è di fronte, dunque, a un rapporto fortemente empatico e assolutamente paritario, fatto di un “prendere” dal cinema ma anche di un generoso “dare” all’immaginario popolare americano. Il libro curato da Del Pozzo ed Esposito ne ripercorre le tappe e, con ulteriori approfondimenti (Tricomi e Maiello) e un’ampia analisi iconologica (Morra), ne restituisce la ricchezza e l’assoluta originalità.
I curatori
Diego Del Pozzo, giornalista e critico, è autore del libro Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani (Torino, 2002) e dei testi del volume fotografico di Gianni Fiorito Scenari. Dieci anni di cinema in Campania (Napoli, 2006). Ha curato con Vincenzo Esposito Rock Around the Screen (Napoli, 2009). Ha pubblicato numerosi saggi in volumi collettivi, enciclopedie, cataloghi di festival, riviste specializzate. Collabora col quotidiano Il Mattino e fa parte del comitato editoriale della rivista Quaderni di Cinemasud. Insegna Comunicazione pubblicitaria presso l'Accademia di Belle Arti di Napoli (indirizzo Fotografia, Cinema, Televisione).
Vincenzo Esposito, storico del cinema, è autore di una monografia su Alf Sjöberg (Roma, 1998) e di un libro sul cinema svedese, La luce e il silenzio (Napoli, 2001). Ha curato con Diego Del Pozzo il volume Rock Around the Screen (Napoli, 2009). Ha pubblicato molti saggi in volumi collettivi e riviste specializzate. Dirige l’Italian Film Festival di Stoccolma. Insegna Teoria e Analisi del Cinema all’Accademia di Belle Arti di Napoli.
Recensioni
"Quanto ha influito il cinema sulla poetica del grande cantautore e musicista? E in che misura Springsteen ha inciso sull'immaginario visivo della fine del Novecento? Il cinema secondo Springsteen analizza, in maniera del tutto inedita e appassionata, il legame tra l'autore di Born to Run e la settima arte. [...] Il testo, corredato da alcune foto in bianco e nero, ricostruisce l'universo concettuale del Boss legato a doppio filo col grande schermo". (Ilaria Urbani, La Repubblica, 21 luglio 2012)
"L’arrivo in Italia di Springsteen ha scatenato anche le case editrici. Detto dei testi commentati di Labianca, almeno altri due titoli vanno ricordati: All The Way Home di Daniele Benvenuti [...] e Il cinema secondo Springsteen di Diego Del Pozzo e Vincenzo Esposito, che indaga i diversi intrecci tra la sua musica e l’arte cinematografica". (Piero Negri, La Stampa, 7 giugno 2012)
"Il testo svela in una prospettiva inedita il rapporto tra l’icona della “working class” americana e l’universo di celluloide. La chiave di lettura dei due curatori partenopei, mai sviscerata neanche nella robusta produzione patria dedicata al rocker, è infatti quella di una relazione profondamente empatica, osmotica, tra il cinema (non solo) a stelle e strisce e i racconti del cantore dei “losers”, che come pochi ha saputo e sa narrare in musica e parole l’oscurità, l’emarginazione, la disoccupazione, i corsi e ricorsi delle crisi economiche, la guerra, il sogno americano (o quel che resta)". (Teresa Mancini, LeiWeb.it, 7 giugno 2012)
"C'è grande attesa per il tour di Wrecking Ball di Bruce e della E Street Band, un ritorno salutato anche da un libro sul suo rapporto con il cinema, un amore intenso e proficuo, ricco di scambi, col cantautore pronto a ispirare i suoi testi ai capolavori del grande schermo e il cinema in prima linea per accaparrarsi le canzoni del Boss. Un fenomeno studiato da Diego Del Pozzo e Vincenzo Esposito, che ne hanno tratto una mostra, conclusasi di recente al Palazzo delle Arti di Napoli, e, appunto, un volume: Il cinema secondo Springsteen, edito da Mephite (nella neonata collana visionirock). L'opera ha il merito di non soffermarsi solo sui contributi da Oscar regalati a numerose colonne sonore, [...] ma di raccontare come il mondo delle immagini abbia invaso, fino dagli albori della carriera, la musica del rocker americano". (Dunya Carcasole, L'Arena - Il Giornale di Vicenza - Bresciaoggi, 7 giugno 2012)
"Testo interessante anche Il cinema secondo Springsteen (euro 12, pp. 240) che Diego Del Pozzo e Vincenzo Esposito hanno curato per Mephite edizioni: vi si indaga il rapporto di mutua reciprocità tra il rocker del New Jersey e l'immaginario cinematografico a stelle e strisce. Perché il vecchio Bruce ha lavorato per il cinema (vi dice niente Streets of Philadelphia?), deve molto al cinema (il suo Tom Joad è lo stesso del Furore di John Ford) e ha influenzato molto cinema (vedi, tra le altre cose, The Wrestler con Mickey Rourke). Inoltre resta una meravigliosa faccia da cinema. Come un po' tutti gli americani con sangue italiano nelle vene". (Francesco Prisco, Ilsole24ore.com, 6 giugno 2012)
"Sono spesso i ribelli senza causa del cinema americano degli anni Cinquanta e Sessanta a ispirare il rock di Bruce Springsteen. Senza dimenticare che il forte impatto di film come Philadelphia o The Wrestler è dovuto anche alle colonne sonore che includono canzoni di Springsteen, che per Philadelphia ha anche vinto un Oscar. Forse, però, se proprio si vuol cercare un punto di riferimento nel rapporto tra il cinema e il rocker del New Jersey, occorre fare un passo indietro fino a Furore di John Ford, anno 1940, per capire come Tom Joad, l'anti-eroe di John Steinbeck alla ricerca di una "terra fertile" e ripagato con paghe da fame (a cui presta il volto Henry Fonda), abbia fortemente influenzato Springsteen, che ha basato proprio su questo film il suo album The Ghost of Tom Joad. Fervidi cultori del rapporto tra immaginario cinematografico e musicale, Del Pozzo ed Esposito non potevano che approfondire il tema curando il volume che dà il titolo alla nuova rassegna, Il cinema secondo Springsteen, da oggi in libreria nella collana visionirock del marchio Quaderni di Cinemasud (edizioni Mephite)". (Nino Marchesano, La Repubblica, 31 maggio 2012)
"Ma nelle pagine di Del Pozzo e Esposito, naturalmente, c’è molto di più, da film sconosciuti a tutti quelli che sono stati "sonorizzati" dalla voce di Bruce o dalle sue canzoni, dalla sua capacità di farsi illuminare dall’immaginario cinematografico americano alla disponibilità a rendere il favore, ispirandolo a sua volta. Autore di canzoni-sceneggiatura, padre di personaggi-workin’ class hero che potrebbero uscire da un lavoro di Bogdanovich, di Scorsese, di Coppola, Bruce è nato per correre come i "beautiful losers" di tanti film, non sempre capolavori. E, in attesa dell’ennesimo tributo di adrenalina e sudore che gli pagheranno i tanti fans campani che non si faranno sfuggire l’occasione di rivederlo con le sue nuove canzoni (e, purtroppo, senza Clarence "Big Man" Clemons), il giochino da cinerockettari è un mare di suoni e visioni in cui è dolce naufragare". (Federico Vacalebre, Il Mattino, 30 maggio 2012)
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Diego Del Pozzo e Vincenzo Esposito (a cura di) Rock Around the Screen. Storie di cinema e musica pop
Liguori Editore 294 pagine, 24.50 euro
"Un'opera brillante e dettagliata, che ha il merito di fissare con buona sintesi alcuni punti fermi e di valorizzare il legame tra note e immagine, così cruciale nella cultura pop"
(Donato Zoppo, Jam, Maggio 2010)
"Undici saggi, colti e non pallosi, su cinema e rock. Un altro libro sul tema? Già, ma vale la spesa. Per la scioltezza di linguaggio, la ricchezza dei riferimenti [...].Una manciata competente di studiosi, cinefili, giornalisti, ispirati da un taglio trasversale, ricostruisce contesti e scenari, senza fermarsi alle curiosità da fan né parlare solo agli iniziati"
(Raffaella Giancristofaro, Rolling Stone, Aprile 2010)
"Di monografie sul rapporto tra rock 'n' roll e cinema ne sono già state scritte, ma Rock Around the Screen di Diego Del Pozzo e Vincenzo Esposito risulta oggi la più completa e attuale. [...] Un libro rigoroso e da non perdere"
(Mauro Gervasini, Film Tv, 4 aprile 2010)
"Un excursus ampio e stimolante [...]. Del Pozzo e Esposito mettono ordine in una materia magmatica evitando il pericolo della nostalgia, canaglia soprattutto quando si parla di rock"
(Federico Vacalebre, Il Mattino, 1 febbraio 2010)
alcune mie passioni
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