giovedì 9 luglio 2015

copa america: prima volta per il cile su un'argentina di perdenti

Di Diego Del Pozzo

Qualche giorno di mare, senza essere connesso, mi ha impedito di pubblicare prima le mie brevi note sulla finale della Copa America 2015, che sabato scorso ha visto il Cile padrone di casa conquistare il prestigioso trofeo per la prima volta nella storia, ma soprattutto ha fatto segnare un'ulteriore - l'ennesima - pagina nera nella parabola di una generazione di calciatori argentini fortissimi, ma che rischiano seriamente di essere ricordati negli annali come "magnifici perdenti", a partire da Leo Messi, ancora una volta deludente in una finale con la maglia dell'Albiceleste e lontano parente di quello straripante che si può abitualmente ammirare nel Barcellona.
Higuaìn tira alle stelle il suo rigore e il Cile vince la Copa America
Finale spettacolare e intensissima nel primo tempo, quella tra Cile e Argentina, con pressing feroce da parte dei giocatori della Roja e con gli argentini a ribattere colpo su colpo (in senso tecnico, ma anche fisico). Il match, poi, diventa più controllato ma sempre combattuto nella sua seconda metà, quindi teso e bloccato nei tempi supplementari. Alla fine, il tabellone indica lo 0-0, ma ai calci di rigori i padroni di casa superano l'Albiceleste, addirittura con un largo 4-1, suggellato dalla trasformazione decisiva di Alexis Sanchez. Così, con grande fatica ma tutto sommato con merito, il Cile compie la missione attesa da un intero popolo e porta a casa la prima Copa America della sua storia, nel tripudio di uno stadio nazionale di Santiago davvero strapieno.
L'Albiceleste da parte sua, invece, perde l'ennesima occasione di vincere un trofeo importante, con una generazione di giocatori fortissimi, ma che - come ho scritto in apertura - rischiano seriamente di essere ricordati come perdenti. Emblema di tutto ciò può essere considerato un centravanti molto dotato come Gonzalo Higuaìn, ancora una volta nervosissimo sul dischetto del rigore. Tra i tiratori argentini che falliscono il proprio calcio da fermo, infatti, spicca proprio l'attaccante del Napoli, giunto al non invidiabile record stagionale di 5 errori su 8 rigori calciati. Il Pipita resta certamente un grande attaccante, ma a questo punto, in vista della nuova stagione, spero che il nuovo tecnico partenopeo Maurizio Sarri abbia il coraggio di affidare a qualcun altro i tiri dal dischetto. Magari, a un freddo specialista come Gabbiadini. E non mi pare che in una simile scelta vi possa essere nulla di male...
Ovviamente, in conclusione, chi tifa Napoli non può che fare i complimenti alla Roja del capocannoniere Edu Vargas (a pari merito col peruviano Guerrero), allenata con mano sicura e idee chiare da un tecnico bravo e preparato come Jorge Sampaoli. 

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giovedì 2 luglio 2015

napoli: la mia analisi "a freddo" della stagione 2014-2015

Di Diego Del Pozzo

Per analizzare la stagione 2014-2015 del Napoli di Rafa Benitez mi sono preso molto tempo, in modo da poterci riflettere su a mente fredda, anzi freddissima, dopo aver superato l'inevitabile delusione per un finale, in Serie A e in Europa, che onestamente avevo immaginato diverso e che, con un pizzico di fortuna e di concentrazione in più, avrebbe potuto essere davvero diverso, nonostante gli errori commessi dalla società, dall'allenatore (alcuni sono anche suoi), dai giocatori e dall'ambiente (lo "spalla a spalla" più volte invocato da Benitez non s'è mai visto...).
L'Era Benitez
Oggi, il tecnico spagnolo è passato alla guida del Real Madrid (evidentemente non deve essere tanto incapace, come hanno lasciato intendere tanti commentatori superficiali o in malafede, per buona parte della stagione), mentre gli azzurri hanno inaugurato una nuova era, all'insegna del grido "Io sono un autarchico", con l'ingaggio di Maurizio Sarri alla guida tecnica, l'acquisto di Mirko Valdifiori in cabina di regia a centrocampo e il ritorno di Pepe Reina in porta, in attesa di altri colpi di mercato (soprattutto in difesa e a metà campo) che sembrano dietro l'angolo. E, dunque, mi pare proprio questo il momento più adatto per provare a ragionare senza pregiudizi ed eccessiva emotività su ciò che è davvero stato il Napoli beniteziano nel corso della stagione calcistica appena conclusa.
Innanzitutto, mi tolgo subito il sassolino (o sassolone) dalla scarpa e ricordo come, sia in semifinale di Coppa Italia che in semifinale di Europa League, il Napoli sia stato eliminato per un soffio, a causa di una serie di gol palesemente irregolari convalidati agli avversari: quello decisivo alla Lazio nel ritorno della coppa nazionale al San Paolo; ed entrambi quelli del Dnipro, sia all'andata che al ritorno delle semifinali europee, con menzione particolare per quello vergognoso nel match del San Paolo, destinato a restare nella storia delle sviste calcistiche. Senza voler pensare alla malafede ma con arbitri un po' più attenti, dunque, il Napoli avrebbe potuto tranquillamente raggiungere le finali di Coppa Italia - ma, diciamoci la verità, allo stadio olimpico di Roma, contro la Juventus, questo non lo voleva proprio nessuno, dopo gli scontri sanguinosi (e l'omicidio del povero Ciro Esposito) di 12 mesi prima - ed Europa League (che, se vinta, avrebbe qualificato ai gironi di Champions League), dopo aver già conquistato a fine dicembre la Supercoppa italiana battendo proprio i quattro volte campioni d'Italia dopo i calci di rigore. Per inciso, da due anni a questa parte, il Napoli di Benitez è l'unica altra squadra italiana che ha saputo vincere qualche titolo, oltre ai cannibali bianconeri (Coppa Italia 2013-2014 e Supercoppa italiana 2014-2015; tutto il resto lo ha vinto la sola Juve!).
Il quinto posto finale in Serie A, con gli azzurri superati sul filo di lana anche dalla Fiorentina, va certamente considerato deludente rispetto a quelle che erano le aspettative della vigilia, gonfiate però a dismisura dall'improvvida uscita presidenziale di agosto 2014, quando in pieno ritiro un Aurelio De Laurentiis particolarmente su di giri urlò in pubblico, dal palco di un teatro strapieno di tifosi e giornalisti, di voler vincere subito lo scudetto, senza poi però dar seguito alle sue parole con un calciomercato estivo all'altezza. La botta decisiva, quindi, arrivò già a inizio stagione, con la dolorosa eliminazione nel preliminare di Champions League da parte dei baschi dell'Athletic Bilbao e la conseguente depressione di tutto l'ambiente. Ho già scritto altre volte su quel match e, dunque, ne faccio a meno in questa sede. Ma mi permetto di ricordare soltanto come, ad agosto 2014, il Napoli fosse tra le squadre internazionali con più calciatori reduci dalle fatiche dei Mondiali brasiliani, mentre i baschi fossero tra i pochi team europei senza alcun uomo presente in Brasile: l'ideale per preparare quel doppio confronto con grande cura per l'intera estate. E, in ogni caso, l'andata al San Paolo sarebbe potuta e forse dovuta terminare almeno 4-1, con un po' più di precisione in zona gol da parte degli attaccanti azzurri.
Esultanza di gruppo dopo un gol
Ecco, proprio la scarsa precisione in attacco è stata una costante dell'annata del Napoli, con tante occasioni da rete costruite in ogni partita, ma poche (in proporzione) concretizzate per imprecisione, fretta, sfortuna, indecisioni, scarsa lucidità, comunque errori individuali, in particolar modo da parte di un Callejòn molto meno redditizio e troppo spesso svagato rispetto alla sua fantastica prima stagione italiana. Alla fine del campionato, secondo i dati Opta (l'azienda leader mondiale nella raccolta ed elaborazione dei dati sportivi in tempo reale), il Napoli è stata la prima squadra di Serie A per numero di tiri effettuati: addirittura 623, con ben 235 nello specchio della porta avversaria. Questo dato ha portato i partenopei al quarto posto assoluto in Europa (con riferimento ai cinque maggiori campionati continentali: Spagna, Inghilterra, Germania, Italia e Francia) proprio per quel che concerne il numero di tiri effettuati nella porta avversaria. Purtroppo, però, la media di realizzazione non è stata altrettanto buona, in relazione alla mole di gioco prodotta. E questo è stato oggettivamente un problema serio.
Da allenatore intelligente, esperto e preparato, infatti, Rafa Benitez aveva costruito la squadra per massimizzare i propri punti di forza (l'attacco) e rendere meno dannosi i punti deboli (il centrocampo e la difesa). Altro inciso necessario: all'estero, Benitez è considerato un tecnico molto attento all'equilibrio tattico e alla fase difensiva. In Italia, non ha certo cambiato il suo approccio al calcio, trasformandosi in novello Zeman, ma avendo una squadra fortissima in attacco ha capito che sarebbe stato più redditizio, per ottenere risultati concreti non soltanto per dare spettacolo, provare a segnare un gol in più degli avversari piuttosto che subirne uno in meno. Purtroppo, però, non aveva fatto i conti con i numerosissimi errori dei suoi attaccanti in fase di conclusione (volendo tacere dei calci di rigore falliti: addirittura 5 su 8, con 4 dal solo Higuaìn!). In ogni caso, nell'intero campionato il Napoli ha segnato 70 gol (terzo attacco dopo Juventus con 72 e Lazio con 71) e ne ha subìti 54 (appena la dodicesima difesa). Il saldo attivo di +16, nei piani del tecnico spagnolo, avrebbe dovuto essere decisamente più positivo. I principali marcatori azzurri sono stati Higuaìn con 18 gol (e 4 rigori sbagliati + una rete regolare non assegnata per palese errore arbitrale), Gabbiadini con 15 (7 nella Sampdoria e 8 nel Napoli, senza tirare rigori), Callejòn con 11, Hamsik con 7, Mertens e Zapata con 6 a testa. Per quanto costruito (e sprecato), a mio avviso al Napoli mancano realisticamente almeno 7-8 gol di Higuaìn, 4-5 di Callejòn e un paio di Mertens. E già finalizzando meglio l'enorme mole di gioco prodotta, la stagione azzurra avrebbe potuto essere diversa.
L'urlo di capitan Hamsik nella magica notte di Wolfsburg
Anche secondo Panini Digital, la società che si occupa dei rilevamenti ufficiali per la Lega Serie A, la fase offensiva del Napoli è stata di tutto rispetto, con la squadra azzurra prima in campionato per tiri totali (15.7 a partita), tiri nello specchio (6.7 a partita: 254 totali; con Higuaìn migliore di tutti a quota 55), calci d'angolo (6.6 per gara) e indice di pericolosità (59.6%. L'indice di pericolosità è un dato composito, in scala da 0 a 100, che misura la produzione offensiva di una squadra, considerando le seguenti variabili: capacità di mantenere il possesso palla, capacità di verticalizzare, capacità di giungere al tiro, capacità di creare occasioni da rete). Aggiungo anche che negli assist, Marek Hamsik è stato quinto assoluto con 60 in 35 partite, Dries Mertens settimo con 55 in 31 (primo assoluto è stato il neoacquisto Valdifiori con 72 in 36); ma lo stesso Hamsik è stato primo (a pari merito) negli assist vincenti: ben 10 (con 44 nelle ultime cinque stagioni: il migliore di tutti). Il problema è che, in proporzione a tutto ciò, il Napoli non è risultato primo anche nella media-gol, che è stata di 1.8 gol a partita.
Dunque, ricapitoliamo: gioco offensivo che è scorso fluido, con tanti assist e tanti tiri pericolosi verso e nella porta avversaria, ma poca precisione da parte dei finalizzatori. Il problema è stato l'impostazione della fase offensiva o il livello e/o la concentrazione e/o la condizione degli uomini a disposizione?
Sotto la lente degli osservatori più superficiali, però, durante l'intera gestione di Rafa Benitez è sempre finita più la difesa che l'attacco. Ma anche qui i numeri raccontano una realtà un po' diversa. Sempre in base ai dati Opta e Panini Digital, infatti, il Napoli è risultato essere la seconda miglior squadra della Serie A per tiri concessi agli avversari, con 381. Davanti agli azzurri c'è stata soltanto la Lazio, con 366. Questo dato, però, è in netto contrasto con quello relativo al numero di gol subìti dai partenopei, ben 54, cioè due in più dell'Empoli e più del doppio rispetto alla Juventus. Dunque, i numeri parlano di pochi tiri in porta concessi agli avversari, ma di troppi gol subìti in proporzione. E anche qui diventa forte il sospetto che a incidere siano stati più gli errori individuali piuttosto che l'impostazione della fase difensiva. A rafforzare questa impressione c'è un altro dato molto interessante e significativo, rilevato da Panini Digital: tra i portieri che hanno giocato almeno 20 partite, infatti, Rafael è stato il peggiore in assoluto per numero di parate effettuate (appena 46 in 23 presenze), mentre se si scorre la graduatoria includendo anche i portieri che ne hanno disputate almeno 15 il peggiore è risultato Andujar, con 28 parate in 15 partite. Per comprendere meglio di che cosa sto parlando, faccio notare come in testa a questa classifica vi sia Sportiello (Atalanta) con 143 parate in 37 partite (Sepe, che dall'Empoli è appena tornato al Napoli, ne ha 92 in 31), mentre tra i top club - che di solito subiscono meno tiri in porta, rispetto alle squadre cosiddette provinciali - Handanovic (Inter) ne ha 98 in 37, Diego Lopez (Milan) 93 in 28, Neto (Fiorentina) 82 in 29, De Sanctis (Roma) 81 in 35, Marchetti (Lazio) 66 in 30, Buffon (Juventus) 63 in 33. Tra l'altro, venendo ai difensori, i tanto criticati centrali azzurri non è che se la siano cavata malissimo, almeno secondo i dati di Panini Digital: infatti, Raul Albiòl è stato secondo assoluto nelle palle recuperate, con 762 in 35 partite (dietro Rugani dell'Empoli, primo con 853 in 38), mentre Koulibaly ne ha riconquistate 552 in sole 27 gare.
Il gol-capolavoro di Higuaìn contro la Roma
Dunque, ricapitoliamo anche in questo caso: pochi tiri subìti, cioè poche occasioni da gol concesse agli avversari, ma pochissime parate dei propri portieri e tante reti al passivo. Il problema, anche qui, è stato l'impostazione della fase difensiva o il livello degli uomini a disposizione in alcuni ruoli-chiave come, per esempio, quello di portiere?
So bene, naturalmente, che i numeri non spiegano tutto, anche se dicono tanto. E so bene di averli utilizzati in maniera anche un po' provocatoria, ma non strumentale. Però, la loro evidenza mi serve per mettere in rilievo quanto strumentali, invece, siano state, lungo l'intera stagione, le critiche nei confronti del sistema di gioco impostato da Rafa Benitez, che con una coppia di centrocampo appena sufficiente (quella che ha giocato di più è stata Gargano - David Lopez, non Mascherano - Fellaini) e col detestato (dalla critica prevenuta e/o superficiale) 4-2-3-1 è riuscito a far scorrere il gioco in maniera fluida, a produrre chiare occasioni da gol in quantità industriale, a schermare adeguatamente la difesa e a far sì che la sua squadra subisse poco da parte degli avversari. Di fronte a tutto ciò, magari, si può capire meglio perché l'allenatore spagnolo - che, ripeto, non è uno sprovveduto ed è uno che ha vinto ovunque sia andato - abbia continuato a insistere sulla sua idea di gioco: perché aveva dalla sua parte il supporto dei numeri e credeva che, prima o poi, i fattori imponderabili - che nel calcio esistono e hanno un peso, ma possono anche essere previsti e limitati - sarebbero girati a favore della sua squadra, cosa che invece, purtroppo, quest'anno non è accaduta quasi mai. Certo, avrebbe potuto aiutare avere a centrocampo Pogba, Pirlo, Marchisio e Vidal; oppure Nainngolan, De Rossi e Pjanic; o ancora Biglia e Parolo, o Borja Valero e Pizarro. Ma l'evidente differenza di qualità tra i centrocampisti del Napoli e quelli delle squadre che lo hanno preceduto in classifica dovrebbe accrescere i meriti dell'allenatore, non diminuirli (per me, anche le mediane di Inter, Milan, Sampdoria e Genoa erano superiori a quella azzurra, ma è un'opinione personale)...
Al Rafa Benitez 2014-2015, però, pur da "rafaelita" convinto, rimprovero alcune cose importanti. Innanzitutto, di essere stato troppo "aziendalista" e signore fino a un certo punto della stagione, per esempio accettando in estate la mancata conferma di Pepe Reina (la cui assenza tra i pali, col senno di poi, s'è rivelata decisiva, anche per le sue doti di leadership) e puntando troppo a lungo sull'acerbo e insicuro Rafael per provare a non bruciare un patrimonio societario. Poi, sempre per non compromettere del tutto i rapporti con De Laurentiis, di aver fatto buon viso a cattivo gioco di fronte a questioni importanti come i tanti centrocampisti di livello internazionale trattati ma mai arrivati (Mascherano, Fellaini, Kramer, Gonalons, Capoué, Sandro, Lucas Leiva, Song e altri ancora), l'assenza di una struttura societaria seria e le troppe promesse mai mantenute (potenziamento del settore giovanile e del centro tecnico prime tra tutte). Di aver gestito male, in una piazza immatura e umorale come Napoli, il suo addio alla società partenopea, credo in qualche modo disorientando anche la squadra. Quindi, nel momento clou della stagione, di aver deciso di affrontare i due match decisivi di Europa League e Serie A, in Ucraina col Dnipro e al San Paolo contro la Juventus, senza schierare dal primo minuto il capitano Marek Hamsik, anima e cuore della squadra, attaccato alla maglia più di un napoletano e, soprattutto, in forma smagliante nel finale di stagione. E non c'è ragione tattica che tenga: i match decisivi una grande squadra li gioca guidata in campo dal suo capitano! Quest'ultimo punto, in particolare, mi ha molto addolorato.
Le lacrime di Insigne dopo il gol al rientro dal lungo infortunio
Certo, il Napoli quest'anno ha peccato in continuità e spesso in grinta e concentrazione, ma con i calciatori a disposizione - soprattutto in determinati ruoli-chiave, come portieri e centrocampisti - più di tanto, probabilmente, nemmeno un tecnico esperto e abile come Benitez avrebbe potuto fare. Però, la mentalità del gruppo e della società è certamente cresciuta, il fatto di giocare ogni tre giorni è diventato un'abitudine e non più un dramma, il Napoli è stato rimesso sulle mappe che contano del calcio italiano ed europeo (attualmente è al 14esimo posto nel ranking ufficiale dell'UEFA). Sotto Benitez, inoltre, Lorenzo Insigne - il cui infortunio per me è stato decisivo, in negativo, per lo sviluppo della stagione azzurra - è diventato un calciatore di livello internazionale, Callejòn e Mertens sono ora tra gli esterni offensivi più richiesti d'Europa, Gargano è migliorato tecnicamente ed è ritornato titolare, Britos ha dimostrato una ormai inattesa affidabilità (soprattutto nella seconda metà di stagione), Gabbiadini è pronto per un ruolo da big, Hamsik ha rafforzato il carattere e prodotto comunque numeri di rilievo (non aveva mai segnato tanto in una sola stagione, né servito così tanti assist), Zapata è diventato uno tra gli attaccanti giovani migliori della Serie A. Avrebbero potuto fare di più, invece, un fuoriclasse assoluto come Higuaìn (però spossato dalle fatiche del Mondiale, come l'Albiòl della prima metà di stagione) e due centrocampisti di buon livello come Jorginho e Inler (più adatti a un centrocampo a tre). Da rivedere Koulibaly e, magari nel ruolo di riserve, David Lopez e il tuttofare De Guzman; mentre sui portieri, entrambi, stenderei semplicemente un velo pietoso: a modo loro, sono stati determinanti.
Ciò che mi dispiace davvero, per coloro che hanno strumentalmente criticato la gestione tecnica beniteziana per tutto l'anno, è che sono riusciti ad avvelenarsi, invece di godersele, anche alcune tra le partite più belle dell'intera storia del Napoli: match-spettacolo probabilmente irripetibili a queste latitudini, come, per esempio, la roboante vittoria esterna a Wolfsburg nell'andata dei quarti di finale di Europa League (1-4!!!), ma anche i successi casalinghi larghi su Roma, Sampdoria, Fiorentina, Verona e persino la vittoriosa finale di Supercoppa contro la Juventus. Auguro a costoro, ma soprattutto a me stesso e a chi ama davvero il Napoli, di rivedere presto una squadra azzurra che vada a imporre il proprio gioco su qualsiasi campo e contro qualsiasi avversario, con un'occupazione costante della metà campo altrui e trame offensive che, a un certo punto dell'esperienza beniteziana, erano invidiate da tutta Europa.
Per concludere, come ho già scritto tempo fa in un'altra sede, paragonerei i due anni di Rafa Benitez sulla panchina del Napoli a ciò che rischia di essere l'Expo per l'Italia: una enorme occasione sprecata. Ma spero davvero che non sia così e che già Sarri possa iniziare a raccogliere i frutti di un lavoro che, lo si vedrà sul medio-lungo periodo, è andato più in profondità di quanto si possa immaginare in questo momento. 

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mercoledì 1 luglio 2015

copa america: gran gol anche per il "pipita" nel 6-1 albiceleste

Gran bel gol (da vero centravanti) per il "Pipita" Gonzalo Higuaìn, nel 6-1 dell'Argentina sul Paraguay. Per l'attaccante del Napoli è la seconda rete in questa Copa America 2015, nonostante i pochi minuti giocati.

copa america: la finale è cile - argentina


copa america: l'argentina gioca a tennis col paraguay e va in finale

Di Diego Del Pozzo

Nella seconda semifinale della Copa America 2015, l'Argentina distrugge con un tennistico 6-1 un Paraguay grintoso e mai domo, ma sfortunatissimo e troppo inferiore rispetto ai più blasonati avversari. Così, dopo essersi sbloccata una volta per tutte nel penultimo atto del torneo, la corazzata albiceleste del "Tata" Martino raggiunge il Cile in quella che era la finale più pronosticata alla vigilia del torneo (si gioca sabato alle ore 22 italiane, con diretta in chiaro su GazzettaTv, canale 59 del digitale terrestre).
La nazionale guaranì allenata da Ramòn Diaz inizia il match senza timori reverenziali, arrivando per prima al tiro e tenendo in ansia gli argentini con ripartenze manovrate veloci e precise. In un quarto d'ora, però, la partita viene indirizzata in maniera quasi definitiva: al 15esimo, infatti, Rojo porta in vantaggio l'Albiceleste; al 26esimo, la stellina paraguayana Derlis Gonzalez deve uscire per un guaio muscolare; un minuto dopo, Javier Pastore raddoppia su assist fantastico di Messi; alla mezz'ora, infine, anche il capitano e centravanti del Paraguay, Roque Santa Cruz, lascia il campo per infortunio. Dopo una simile sequenza negativa, squadre ben più forti di quella allenata da Diaz abbandonerebbero ogni speranza. Ma l'orgoglio dell'Albirroja produce i memorabili dieci minuti finali del primo tempo, nei quali il neoentrato Lucas Barrios dimezza lo svantaggio, l'altro subentrato Bobadilla sfiora un clamoroso 2-2, ma soprattutto l'Argentina pare un pugile alle corde, provvidenzialmente salvato dal "gong" che sancisce l'intervallo.
Che cosa il "Tata" abbia detto ai suoi uomini negli spogliatoi resterà, probabilmente, un mistero. Fatto sta che, all'uscita dagli spogliatoi Messi e compagni mostrano gli occhi della tigre e in appena otto minuti chiudono definitivamente il match, grazie a due bei gol di Angel Di Maria, che conclude altrettante bellissime manovre in velocità argentine. Da questo momento in poi, non c'è più storia: i vicecampioni del mondo divertono e si divertono e producono spettacolo e azioni da gol a ripetizione, con i loro tanti solisti che intrecciano i propri talenti quasi come in una virtuosistica jam session jazzistica. Al centro della manovra c'è proprio Leo Messi, più arretrato rispetto a come gioca nel Barcellona, ma motivato e sempre pronto a servire palloni d'oro ai compagni di reparto: pur non segnando, dunque, il capitano argentino imprime il proprio marchio sul match, entrando ancora nel quinto gol di Aguero e servendo un assist da terra all'appena entrato Gonzalo Higuaìn per la bella rete (da grande centravanti) che fissa il punteggio sul definitivo 6-1.
Il Paraguay non esce umiliato dal terreno dello stadio "Ester Roa" di Concepciòn, nonostante il pesante passivo, perché lotta e gioca fino alla fine e, in ogni caso, può recriminare per i decisivi infortuni dei suoi due uomini più importanti già nella prima mezz'ora di gara. Quando l'Argentina può distendersi in velocità e dare libero sfogo alla fantasia e alla tecnica sopraffina dei suoi tanti solisti, però, diventa inarrestabile e difficile da battere per chiunque (ricordo che la finale mondiale persa con la Germania la giocò senza Di Maria): i tagli, gli intrecci, gli scambi tra Messi, Pastore (gran partita anche la sua), Di Maria e Aguero (o Higuaìn, o Tevez), con Mascherano e Biglia padroni del centrocampo e Rojo e Zabaleta a spingere con regolarità sulle due fasce sono armi letali e, al tempo stesso, autentici inni agli dei del calcio.
Contro il Cile a trazione offensiva di Jorge Sampaoli (altro tecnico argentino, come Martino, Diaz e Gareca: i quattro semifinalisti) potrebbe venir fuori una finale memorabile, a base di tecnica e spettacolo, con la speranza che l'enorme rivalità tra i due Paesi e la tensione che accompagna sempre l'atto conclusivo di un torneo così importante non freni Roja e Albiceleste. In caso di vittoria, per il Cile sarebbe una prima volta, per l'Argentina il ritorno al successo dopo ben 22 anni. E Leo Messi finora ha segnato un solo gol e su calcio di rigore: tutto lascia intendere che quella di sabato sera potrebbe essere la sua partita. 

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