giovedì 9 luglio 2015

copa america: prima volta per il cile su un'argentina di perdenti

Di Diego Del Pozzo

Qualche giorno di mare, senza essere connesso, mi ha impedito di pubblicare prima le mie brevi note sulla finale della Copa America 2015, che sabato scorso ha visto il Cile padrone di casa conquistare il prestigioso trofeo per la prima volta nella storia, ma soprattutto ha fatto segnare un'ulteriore - l'ennesima - pagina nera nella parabola di una generazione di calciatori argentini fortissimi, ma che rischiano seriamente di essere ricordati negli annali come "magnifici perdenti", a partire da Leo Messi, ancora una volta deludente in una finale con la maglia dell'Albiceleste e lontano parente di quello straripante che si può abitualmente ammirare nel Barcellona.
Higuaìn tira alle stelle il suo rigore e il Cile vince la Copa America
Finale spettacolare e intensissima nel primo tempo, quella tra Cile e Argentina, con pressing feroce da parte dei giocatori della Roja e con gli argentini a ribattere colpo su colpo (in senso tecnico, ma anche fisico). Il match, poi, diventa più controllato ma sempre combattuto nella sua seconda metà, quindi teso e bloccato nei tempi supplementari. Alla fine, il tabellone indica lo 0-0, ma ai calci di rigori i padroni di casa superano l'Albiceleste, addirittura con un largo 4-1, suggellato dalla trasformazione decisiva di Alexis Sanchez. Così, con grande fatica ma tutto sommato con merito, il Cile compie la missione attesa da un intero popolo e porta a casa la prima Copa America della sua storia, nel tripudio di uno stadio nazionale di Santiago davvero strapieno.
L'Albiceleste da parte sua, invece, perde l'ennesima occasione di vincere un trofeo importante, con una generazione di giocatori fortissimi, ma che - come ho scritto in apertura - rischiano seriamente di essere ricordati come perdenti. Emblema di tutto ciò può essere considerato un centravanti molto dotato come Gonzalo Higuaìn, ancora una volta nervosissimo sul dischetto del rigore. Tra i tiratori argentini che falliscono il proprio calcio da fermo, infatti, spicca proprio l'attaccante del Napoli, giunto al non invidiabile record stagionale di 5 errori su 8 rigori calciati. Il Pipita resta certamente un grande attaccante, ma a questo punto, in vista della nuova stagione, spero che il nuovo tecnico partenopeo Maurizio Sarri abbia il coraggio di affidare a qualcun altro i tiri dal dischetto. Magari, a un freddo specialista come Gabbiadini. E non mi pare che in una simile scelta vi possa essere nulla di male...
Ovviamente, in conclusione, chi tifa Napoli non può che fare i complimenti alla Roja del capocannoniere Edu Vargas (a pari merito col peruviano Guerrero), allenata con mano sicura e idee chiare da un tecnico bravo e preparato come Jorge Sampaoli. 

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giovedì 2 luglio 2015

napoli: la mia analisi "a freddo" della stagione 2014-2015

Di Diego Del Pozzo

Per analizzare la stagione 2014-2015 del Napoli di Rafa Benitez mi sono preso molto tempo, in modo da poterci riflettere su a mente fredda, anzi freddissima, dopo aver superato l'inevitabile delusione per un finale, in Serie A e in Europa, che onestamente avevo immaginato diverso e che, con un pizzico di fortuna e di concentrazione in più, avrebbe potuto essere davvero diverso, nonostante gli errori commessi dalla società, dall'allenatore (alcuni sono anche suoi), dai giocatori e dall'ambiente (lo "spalla a spalla" più volte invocato da Benitez non s'è mai visto...).
L'Era Benitez
Oggi, il tecnico spagnolo è passato alla guida del Real Madrid (evidentemente non deve essere tanto incapace, come hanno lasciato intendere tanti commentatori superficiali o in malafede, per buona parte della stagione), mentre gli azzurri hanno inaugurato una nuova era, all'insegna del grido "Io sono un autarchico", con l'ingaggio di Maurizio Sarri alla guida tecnica, l'acquisto di Mirko Valdifiori in cabina di regia a centrocampo e il ritorno di Pepe Reina in porta, in attesa di altri colpi di mercato (soprattutto in difesa e a metà campo) che sembrano dietro l'angolo. E, dunque, mi pare proprio questo il momento più adatto per provare a ragionare senza pregiudizi ed eccessiva emotività su ciò che è davvero stato il Napoli beniteziano nel corso della stagione calcistica appena conclusa.
Innanzitutto, mi tolgo subito il sassolino (o sassolone) dalla scarpa e ricordo come, sia in semifinale di Coppa Italia che in semifinale di Europa League, il Napoli sia stato eliminato per un soffio, a causa di una serie di gol palesemente irregolari convalidati agli avversari: quello decisivo alla Lazio nel ritorno della coppa nazionale al San Paolo; ed entrambi quelli del Dnipro, sia all'andata che al ritorno delle semifinali europee, con menzione particolare per quello vergognoso nel match del San Paolo, destinato a restare nella storia delle sviste calcistiche. Senza voler pensare alla malafede ma con arbitri un po' più attenti, dunque, il Napoli avrebbe potuto tranquillamente raggiungere le finali di Coppa Italia - ma, diciamoci la verità, allo stadio olimpico di Roma, contro la Juventus, questo non lo voleva proprio nessuno, dopo gli scontri sanguinosi (e l'omicidio del povero Ciro Esposito) di 12 mesi prima - ed Europa League (che, se vinta, avrebbe qualificato ai gironi di Champions League), dopo aver già conquistato a fine dicembre la Supercoppa italiana battendo proprio i quattro volte campioni d'Italia dopo i calci di rigore. Per inciso, da due anni a questa parte, il Napoli di Benitez è l'unica altra squadra italiana che ha saputo vincere qualche titolo, oltre ai cannibali bianconeri (Coppa Italia 2013-2014 e Supercoppa italiana 2014-2015; tutto il resto lo ha vinto la sola Juve!).
Il quinto posto finale in Serie A, con gli azzurri superati sul filo di lana anche dalla Fiorentina, va certamente considerato deludente rispetto a quelle che erano le aspettative della vigilia, gonfiate però a dismisura dall'improvvida uscita presidenziale di agosto 2014, quando in pieno ritiro un Aurelio De Laurentiis particolarmente su di giri urlò in pubblico, dal palco di un teatro strapieno di tifosi e giornalisti, di voler vincere subito lo scudetto, senza poi però dar seguito alle sue parole con un calciomercato estivo all'altezza. La botta decisiva, quindi, arrivò già a inizio stagione, con la dolorosa eliminazione nel preliminare di Champions League da parte dei baschi dell'Athletic Bilbao e la conseguente depressione di tutto l'ambiente. Ho già scritto altre volte su quel match e, dunque, ne faccio a meno in questa sede. Ma mi permetto di ricordare soltanto come, ad agosto 2014, il Napoli fosse tra le squadre internazionali con più calciatori reduci dalle fatiche dei Mondiali brasiliani, mentre i baschi fossero tra i pochi team europei senza alcun uomo presente in Brasile: l'ideale per preparare quel doppio confronto con grande cura per l'intera estate. E, in ogni caso, l'andata al San Paolo sarebbe potuta e forse dovuta terminare almeno 4-1, con un po' più di precisione in zona gol da parte degli attaccanti azzurri.
Esultanza di gruppo dopo un gol
Ecco, proprio la scarsa precisione in attacco è stata una costante dell'annata del Napoli, con tante occasioni da rete costruite in ogni partita, ma poche (in proporzione) concretizzate per imprecisione, fretta, sfortuna, indecisioni, scarsa lucidità, comunque errori individuali, in particolar modo da parte di un Callejòn molto meno redditizio e troppo spesso svagato rispetto alla sua fantastica prima stagione italiana. Alla fine del campionato, secondo i dati Opta (l'azienda leader mondiale nella raccolta ed elaborazione dei dati sportivi in tempo reale), il Napoli è stata la prima squadra di Serie A per numero di tiri effettuati: addirittura 623, con ben 235 nello specchio della porta avversaria. Questo dato ha portato i partenopei al quarto posto assoluto in Europa (con riferimento ai cinque maggiori campionati continentali: Spagna, Inghilterra, Germania, Italia e Francia) proprio per quel che concerne il numero di tiri effettuati nella porta avversaria. Purtroppo, però, la media di realizzazione non è stata altrettanto buona, in relazione alla mole di gioco prodotta. E questo è stato oggettivamente un problema serio.
Da allenatore intelligente, esperto e preparato, infatti, Rafa Benitez aveva costruito la squadra per massimizzare i propri punti di forza (l'attacco) e rendere meno dannosi i punti deboli (il centrocampo e la difesa). Altro inciso necessario: all'estero, Benitez è considerato un tecnico molto attento all'equilibrio tattico e alla fase difensiva. In Italia, non ha certo cambiato il suo approccio al calcio, trasformandosi in novello Zeman, ma avendo una squadra fortissima in attacco ha capito che sarebbe stato più redditizio, per ottenere risultati concreti non soltanto per dare spettacolo, provare a segnare un gol in più degli avversari piuttosto che subirne uno in meno. Purtroppo, però, non aveva fatto i conti con i numerosissimi errori dei suoi attaccanti in fase di conclusione (volendo tacere dei calci di rigore falliti: addirittura 5 su 8, con 4 dal solo Higuaìn!). In ogni caso, nell'intero campionato il Napoli ha segnato 70 gol (terzo attacco dopo Juventus con 72 e Lazio con 71) e ne ha subìti 54 (appena la dodicesima difesa). Il saldo attivo di +16, nei piani del tecnico spagnolo, avrebbe dovuto essere decisamente più positivo. I principali marcatori azzurri sono stati Higuaìn con 18 gol (e 4 rigori sbagliati + una rete regolare non assegnata per palese errore arbitrale), Gabbiadini con 15 (7 nella Sampdoria e 8 nel Napoli, senza tirare rigori), Callejòn con 11, Hamsik con 7, Mertens e Zapata con 6 a testa. Per quanto costruito (e sprecato), a mio avviso al Napoli mancano realisticamente almeno 7-8 gol di Higuaìn, 4-5 di Callejòn e un paio di Mertens. E già finalizzando meglio l'enorme mole di gioco prodotta, la stagione azzurra avrebbe potuto essere diversa.
L'urlo di capitan Hamsik nella magica notte di Wolfsburg
Anche secondo Panini Digital, la società che si occupa dei rilevamenti ufficiali per la Lega Serie A, la fase offensiva del Napoli è stata di tutto rispetto, con la squadra azzurra prima in campionato per tiri totali (15.7 a partita), tiri nello specchio (6.7 a partita: 254 totali; con Higuaìn migliore di tutti a quota 55), calci d'angolo (6.6 per gara) e indice di pericolosità (59.6%. L'indice di pericolosità è un dato composito, in scala da 0 a 100, che misura la produzione offensiva di una squadra, considerando le seguenti variabili: capacità di mantenere il possesso palla, capacità di verticalizzare, capacità di giungere al tiro, capacità di creare occasioni da rete). Aggiungo anche che negli assist, Marek Hamsik è stato quinto assoluto con 60 in 35 partite, Dries Mertens settimo con 55 in 31 (primo assoluto è stato il neoacquisto Valdifiori con 72 in 36); ma lo stesso Hamsik è stato primo (a pari merito) negli assist vincenti: ben 10 (con 44 nelle ultime cinque stagioni: il migliore di tutti). Il problema è che, in proporzione a tutto ciò, il Napoli non è risultato primo anche nella media-gol, che è stata di 1.8 gol a partita.
Dunque, ricapitoliamo: gioco offensivo che è scorso fluido, con tanti assist e tanti tiri pericolosi verso e nella porta avversaria, ma poca precisione da parte dei finalizzatori. Il problema è stato l'impostazione della fase offensiva o il livello e/o la concentrazione e/o la condizione degli uomini a disposizione?
Sotto la lente degli osservatori più superficiali, però, durante l'intera gestione di Rafa Benitez è sempre finita più la difesa che l'attacco. Ma anche qui i numeri raccontano una realtà un po' diversa. Sempre in base ai dati Opta e Panini Digital, infatti, il Napoli è risultato essere la seconda miglior squadra della Serie A per tiri concessi agli avversari, con 381. Davanti agli azzurri c'è stata soltanto la Lazio, con 366. Questo dato, però, è in netto contrasto con quello relativo al numero di gol subìti dai partenopei, ben 54, cioè due in più dell'Empoli e più del doppio rispetto alla Juventus. Dunque, i numeri parlano di pochi tiri in porta concessi agli avversari, ma di troppi gol subìti in proporzione. E anche qui diventa forte il sospetto che a incidere siano stati più gli errori individuali piuttosto che l'impostazione della fase difensiva. A rafforzare questa impressione c'è un altro dato molto interessante e significativo, rilevato da Panini Digital: tra i portieri che hanno giocato almeno 20 partite, infatti, Rafael è stato il peggiore in assoluto per numero di parate effettuate (appena 46 in 23 presenze), mentre se si scorre la graduatoria includendo anche i portieri che ne hanno disputate almeno 15 il peggiore è risultato Andujar, con 28 parate in 15 partite. Per comprendere meglio di che cosa sto parlando, faccio notare come in testa a questa classifica vi sia Sportiello (Atalanta) con 143 parate in 37 partite (Sepe, che dall'Empoli è appena tornato al Napoli, ne ha 92 in 31), mentre tra i top club - che di solito subiscono meno tiri in porta, rispetto alle squadre cosiddette provinciali - Handanovic (Inter) ne ha 98 in 37, Diego Lopez (Milan) 93 in 28, Neto (Fiorentina) 82 in 29, De Sanctis (Roma) 81 in 35, Marchetti (Lazio) 66 in 30, Buffon (Juventus) 63 in 33. Tra l'altro, venendo ai difensori, i tanto criticati centrali azzurri non è che se la siano cavata malissimo, almeno secondo i dati di Panini Digital: infatti, Raul Albiòl è stato secondo assoluto nelle palle recuperate, con 762 in 35 partite (dietro Rugani dell'Empoli, primo con 853 in 38), mentre Koulibaly ne ha riconquistate 552 in sole 27 gare.
Il gol-capolavoro di Higuaìn contro la Roma
Dunque, ricapitoliamo anche in questo caso: pochi tiri subìti, cioè poche occasioni da gol concesse agli avversari, ma pochissime parate dei propri portieri e tante reti al passivo. Il problema, anche qui, è stato l'impostazione della fase difensiva o il livello degli uomini a disposizione in alcuni ruoli-chiave come, per esempio, quello di portiere?
So bene, naturalmente, che i numeri non spiegano tutto, anche se dicono tanto. E so bene di averli utilizzati in maniera anche un po' provocatoria, ma non strumentale. Però, la loro evidenza mi serve per mettere in rilievo quanto strumentali, invece, siano state, lungo l'intera stagione, le critiche nei confronti del sistema di gioco impostato da Rafa Benitez, che con una coppia di centrocampo appena sufficiente (quella che ha giocato di più è stata Gargano - David Lopez, non Mascherano - Fellaini) e col detestato (dalla critica prevenuta e/o superficiale) 4-2-3-1 è riuscito a far scorrere il gioco in maniera fluida, a produrre chiare occasioni da gol in quantità industriale, a schermare adeguatamente la difesa e a far sì che la sua squadra subisse poco da parte degli avversari. Di fronte a tutto ciò, magari, si può capire meglio perché l'allenatore spagnolo - che, ripeto, non è uno sprovveduto ed è uno che ha vinto ovunque sia andato - abbia continuato a insistere sulla sua idea di gioco: perché aveva dalla sua parte il supporto dei numeri e credeva che, prima o poi, i fattori imponderabili - che nel calcio esistono e hanno un peso, ma possono anche essere previsti e limitati - sarebbero girati a favore della sua squadra, cosa che invece, purtroppo, quest'anno non è accaduta quasi mai. Certo, avrebbe potuto aiutare avere a centrocampo Pogba, Pirlo, Marchisio e Vidal; oppure Nainngolan, De Rossi e Pjanic; o ancora Biglia e Parolo, o Borja Valero e Pizarro. Ma l'evidente differenza di qualità tra i centrocampisti del Napoli e quelli delle squadre che lo hanno preceduto in classifica dovrebbe accrescere i meriti dell'allenatore, non diminuirli (per me, anche le mediane di Inter, Milan, Sampdoria e Genoa erano superiori a quella azzurra, ma è un'opinione personale)...
Al Rafa Benitez 2014-2015, però, pur da "rafaelita" convinto, rimprovero alcune cose importanti. Innanzitutto, di essere stato troppo "aziendalista" e signore fino a un certo punto della stagione, per esempio accettando in estate la mancata conferma di Pepe Reina (la cui assenza tra i pali, col senno di poi, s'è rivelata decisiva, anche per le sue doti di leadership) e puntando troppo a lungo sull'acerbo e insicuro Rafael per provare a non bruciare un patrimonio societario. Poi, sempre per non compromettere del tutto i rapporti con De Laurentiis, di aver fatto buon viso a cattivo gioco di fronte a questioni importanti come i tanti centrocampisti di livello internazionale trattati ma mai arrivati (Mascherano, Fellaini, Kramer, Gonalons, Capoué, Sandro, Lucas Leiva, Song e altri ancora), l'assenza di una struttura societaria seria e le troppe promesse mai mantenute (potenziamento del settore giovanile e del centro tecnico prime tra tutte). Di aver gestito male, in una piazza immatura e umorale come Napoli, il suo addio alla società partenopea, credo in qualche modo disorientando anche la squadra. Quindi, nel momento clou della stagione, di aver deciso di affrontare i due match decisivi di Europa League e Serie A, in Ucraina col Dnipro e al San Paolo contro la Juventus, senza schierare dal primo minuto il capitano Marek Hamsik, anima e cuore della squadra, attaccato alla maglia più di un napoletano e, soprattutto, in forma smagliante nel finale di stagione. E non c'è ragione tattica che tenga: i match decisivi una grande squadra li gioca guidata in campo dal suo capitano! Quest'ultimo punto, in particolare, mi ha molto addolorato.
Le lacrime di Insigne dopo il gol al rientro dal lungo infortunio
Certo, il Napoli quest'anno ha peccato in continuità e spesso in grinta e concentrazione, ma con i calciatori a disposizione - soprattutto in determinati ruoli-chiave, come portieri e centrocampisti - più di tanto, probabilmente, nemmeno un tecnico esperto e abile come Benitez avrebbe potuto fare. Però, la mentalità del gruppo e della società è certamente cresciuta, il fatto di giocare ogni tre giorni è diventato un'abitudine e non più un dramma, il Napoli è stato rimesso sulle mappe che contano del calcio italiano ed europeo (attualmente è al 14esimo posto nel ranking ufficiale dell'UEFA). Sotto Benitez, inoltre, Lorenzo Insigne - il cui infortunio per me è stato decisivo, in negativo, per lo sviluppo della stagione azzurra - è diventato un calciatore di livello internazionale, Callejòn e Mertens sono ora tra gli esterni offensivi più richiesti d'Europa, Gargano è migliorato tecnicamente ed è ritornato titolare, Britos ha dimostrato una ormai inattesa affidabilità (soprattutto nella seconda metà di stagione), Gabbiadini è pronto per un ruolo da big, Hamsik ha rafforzato il carattere e prodotto comunque numeri di rilievo (non aveva mai segnato tanto in una sola stagione, né servito così tanti assist), Zapata è diventato uno tra gli attaccanti giovani migliori della Serie A. Avrebbero potuto fare di più, invece, un fuoriclasse assoluto come Higuaìn (però spossato dalle fatiche del Mondiale, come l'Albiòl della prima metà di stagione) e due centrocampisti di buon livello come Jorginho e Inler (più adatti a un centrocampo a tre). Da rivedere Koulibaly e, magari nel ruolo di riserve, David Lopez e il tuttofare De Guzman; mentre sui portieri, entrambi, stenderei semplicemente un velo pietoso: a modo loro, sono stati determinanti.
Ciò che mi dispiace davvero, per coloro che hanno strumentalmente criticato la gestione tecnica beniteziana per tutto l'anno, è che sono riusciti ad avvelenarsi, invece di godersele, anche alcune tra le partite più belle dell'intera storia del Napoli: match-spettacolo probabilmente irripetibili a queste latitudini, come, per esempio, la roboante vittoria esterna a Wolfsburg nell'andata dei quarti di finale di Europa League (1-4!!!), ma anche i successi casalinghi larghi su Roma, Sampdoria, Fiorentina, Verona e persino la vittoriosa finale di Supercoppa contro la Juventus. Auguro a costoro, ma soprattutto a me stesso e a chi ama davvero il Napoli, di rivedere presto una squadra azzurra che vada a imporre il proprio gioco su qualsiasi campo e contro qualsiasi avversario, con un'occupazione costante della metà campo altrui e trame offensive che, a un certo punto dell'esperienza beniteziana, erano invidiate da tutta Europa.
Per concludere, come ho già scritto tempo fa in un'altra sede, paragonerei i due anni di Rafa Benitez sulla panchina del Napoli a ciò che rischia di essere l'Expo per l'Italia: una enorme occasione sprecata. Ma spero davvero che non sia così e che già Sarri possa iniziare a raccogliere i frutti di un lavoro che, lo si vedrà sul medio-lungo periodo, è andato più in profondità di quanto si possa immaginare in questo momento. 

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mercoledì 1 luglio 2015

copa america: gran gol anche per il "pipita" nel 6-1 albiceleste

Gran bel gol (da vero centravanti) per il "Pipita" Gonzalo Higuaìn, nel 6-1 dell'Argentina sul Paraguay. Per l'attaccante del Napoli è la seconda rete in questa Copa America 2015, nonostante i pochi minuti giocati.

copa america: la finale è cile - argentina


copa america: l'argentina gioca a tennis col paraguay e va in finale

Di Diego Del Pozzo

Nella seconda semifinale della Copa America 2015, l'Argentina distrugge con un tennistico 6-1 un Paraguay grintoso e mai domo, ma sfortunatissimo e troppo inferiore rispetto ai più blasonati avversari. Così, dopo essersi sbloccata una volta per tutte nel penultimo atto del torneo, la corazzata albiceleste del "Tata" Martino raggiunge il Cile in quella che era la finale più pronosticata alla vigilia del torneo (si gioca sabato alle ore 22 italiane, con diretta in chiaro su GazzettaTv, canale 59 del digitale terrestre).
La nazionale guaranì allenata da Ramòn Diaz inizia il match senza timori reverenziali, arrivando per prima al tiro e tenendo in ansia gli argentini con ripartenze manovrate veloci e precise. In un quarto d'ora, però, la partita viene indirizzata in maniera quasi definitiva: al 15esimo, infatti, Rojo porta in vantaggio l'Albiceleste; al 26esimo, la stellina paraguayana Derlis Gonzalez deve uscire per un guaio muscolare; un minuto dopo, Javier Pastore raddoppia su assist fantastico di Messi; alla mezz'ora, infine, anche il capitano e centravanti del Paraguay, Roque Santa Cruz, lascia il campo per infortunio. Dopo una simile sequenza negativa, squadre ben più forti di quella allenata da Diaz abbandonerebbero ogni speranza. Ma l'orgoglio dell'Albirroja produce i memorabili dieci minuti finali del primo tempo, nei quali il neoentrato Lucas Barrios dimezza lo svantaggio, l'altro subentrato Bobadilla sfiora un clamoroso 2-2, ma soprattutto l'Argentina pare un pugile alle corde, provvidenzialmente salvato dal "gong" che sancisce l'intervallo.
Che cosa il "Tata" abbia detto ai suoi uomini negli spogliatoi resterà, probabilmente, un mistero. Fatto sta che, all'uscita dagli spogliatoi Messi e compagni mostrano gli occhi della tigre e in appena otto minuti chiudono definitivamente il match, grazie a due bei gol di Angel Di Maria, che conclude altrettante bellissime manovre in velocità argentine. Da questo momento in poi, non c'è più storia: i vicecampioni del mondo divertono e si divertono e producono spettacolo e azioni da gol a ripetizione, con i loro tanti solisti che intrecciano i propri talenti quasi come in una virtuosistica jam session jazzistica. Al centro della manovra c'è proprio Leo Messi, più arretrato rispetto a come gioca nel Barcellona, ma motivato e sempre pronto a servire palloni d'oro ai compagni di reparto: pur non segnando, dunque, il capitano argentino imprime il proprio marchio sul match, entrando ancora nel quinto gol di Aguero e servendo un assist da terra all'appena entrato Gonzalo Higuaìn per la bella rete (da grande centravanti) che fissa il punteggio sul definitivo 6-1.
Il Paraguay non esce umiliato dal terreno dello stadio "Ester Roa" di Concepciòn, nonostante il pesante passivo, perché lotta e gioca fino alla fine e, in ogni caso, può recriminare per i decisivi infortuni dei suoi due uomini più importanti già nella prima mezz'ora di gara. Quando l'Argentina può distendersi in velocità e dare libero sfogo alla fantasia e alla tecnica sopraffina dei suoi tanti solisti, però, diventa inarrestabile e difficile da battere per chiunque (ricordo che la finale mondiale persa con la Germania la giocò senza Di Maria): i tagli, gli intrecci, gli scambi tra Messi, Pastore (gran partita anche la sua), Di Maria e Aguero (o Higuaìn, o Tevez), con Mascherano e Biglia padroni del centrocampo e Rojo e Zabaleta a spingere con regolarità sulle due fasce sono armi letali e, al tempo stesso, autentici inni agli dei del calcio.
Contro il Cile a trazione offensiva di Jorge Sampaoli (altro tecnico argentino, come Martino, Diaz e Gareca: i quattro semifinalisti) potrebbe venir fuori una finale memorabile, a base di tecnica e spettacolo, con la speranza che l'enorme rivalità tra i due Paesi e la tensione che accompagna sempre l'atto conclusivo di un torneo così importante non freni Roja e Albiceleste. In caso di vittoria, per il Cile sarebbe una prima volta, per l'Argentina il ritorno al successo dopo ben 22 anni. E Leo Messi finora ha segnato un solo gol e su calcio di rigore: tutto lascia intendere che quella di sabato sera potrebbe essere la sua partita. 

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martedì 30 giugno 2015

copa america: il cile va in finale, ma gli applausi vanno al perù

Di Diego Del Pozzo

Un grandissimo Perù riesce a creare enormi difficoltà ai padroni di casa del Cile nella prima semifinale di Copa America 2015, in un "Classico del Pacifico" molto bello, intenso, spettacolare, pieno di emozioni ed episodi da raccontare.
L'esultanza finale di Edu Vargas e Claudio Bravo
I peruviani, ottimamente messi in campo dal "Tigre" Gareca, partono col piede premuto sull'acceleratore e colpiscono un palo dopo pochi minuti con un bel colpo di testa di Jefferson Farfan, facendo capire subito a Jorge Sampaoli e ai suoi uomini che la serata sarà piuttosto complicata. A facilitarla un po', però, dopo una ventina di minuti di ottimo Perù, ci pensa l'arbitro venezuelano Argote, che rifila al leader difensivo della Blanquirroja, Zambrano (molto ingenuo nell'occasione), due ammonizioni in pochi minuti (la prima molto fiscale) mandandolo sotto la doccia già al 21esimo. Gareca reagisce sostituendo l'esterno tutto corsa e velocità Cueva col difensore Ramos, spostando in fascia Farfan e allestendo un 4-4-1 molto elastico ed equilibrato.
Il Cile prende inevitabilmente campo, anche se gli avversari sono abili a rovesciare il fronte con ripartenze veloci e ficcanti, che possono contare su un Paolo Guerrero in serata di grazia (da pivot tiene occupata da solo l'intera retroguardia cilena) e sulle grandi prestazioni in fascia degli interessantissimi Advincula (finora, nettamente il miglior terzino destro del torneo) e Carrillo. Nella Roja, però, cresce col passare dei minuti il "Mago" Valdivia, che dispensa assist in serie ai compagni d'attacco e li mette due-tre volte in condizione di segnare. Il vantaggio cileno, comunque, arriva di lì a poco, grazie a un tocco sotto misura di Edu Vargas (in leggero e quasi impercettibile fuorigioco) dopo un tiro a rientrare di Sanchez e un velo/liscio di Aranguiz.
Edu Vargas, man of the match
La ripresa si apre con la doppia sostituzione di Sampaoli, che evidentemente non è soddisfatto di quanto visto nei primi 45 minuti e cambia la fascia difensiva sinistra e il cervello di centrocampo, con Mena e Pizarro al posto di Albornoz e Dìaz. Il Perù, in ogni caso, non si scompone e continua a seguire il suo piano tattico, come se nulla fosse. Anzi, tra le due squadre quella in superiorità numerica sembra la Blanquirroja, che controlla agevolmente gli attacchi lenti dei padroni di casa, riparte con tecnica e velocità e arriva al meritato pareggio con una bellissima azione di contropiede conclusa da un calibratissimo cross di Advincula (spettacolare il suo secondo tempo) deviato in spaccata da uno spaesato Medel alle spalle di Claudio Bravo.
E ci vuole un'autentica prodezza di Edu Vargas, meno di cinque minuti dopo, per riportare il Cile in vantaggio: su una palla recuperata dai compagni a tre quarti campo, l'attaccante ancora di proprietà del Napoli non ci pensa due volte e, dai venticinque metri, lascia partire un siluro di destro che s'insacca violento e preciso nel sette opposto. Poco prima, allo stesso Vargas - migliore in campo, non soltanto per la doppietta, ma per la precisione e la continuità dei movimenti offensivi e per una serie di giocate di elevata qualità - era stato annullato un altro gol bellissimo, per un fuorigioco inesistente. I peruviani provano a reagire, ma la prolungata inferiorità numerica e l'intensità messa in campo fino a quel momento si fanno sentire nelle gambe, lasciando i giocatori di Gareca stremati  nei 20 minuti finali (addirittura, Carrillo - che non s'è fermato per un solo secondo - esce per crampi).
Al fischio finale, c'è spazio per un po' di polemiche per un possibile rigore non fischiato su Guerrero (ma, a mio avviso, non c'era) e per i tanti applausi da tributare a un Perù che esce a testa altissima e promette un grande futuro, ma anche a un Cile che ottiene l'obiettivo minimo della vigilia: la finale, che mancava da ben 28 anni. Adesso, ai padroni di casa non resta che aspettare la vincente dell'altra semifinale tra Argentina e Paraguay, in programma stanotte, come al solito con diretta italiana all'una e mezza su GazzettaTv, alla quale va fatto un applauso convinto per l'ottima copertura televisiva di un torneo affascinante come pochi altri al mondo. 

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lunedì 29 giugno 2015

copa america: i quarti di finale e l'eliminazione-shock del brasile

Di Diego Del Pozzo

Dopo un primo turno a gironi tutto nel segno dei padroni di casa del Cile, la Copa America 2015 ha celebrato in questi giorni i quarti di finale, con l'eliminazione-shock del Brasile da parte del Paraguay della giovane stella Derlis Gonzalez e le qualificazioni piuttosto scontate della Roja, del Perù e dell'Argentina.
Derlis Gonzalez decisivo in Brasile - Paraguay 4-5 d. c. r.
Cile - Uruguay 1-0
Nel primo match, la Roja se l'è vista con i campioni uscenti uruguayani, sempre ostici da affrontare in confronti senza domani. In realtà, lo spauracchio celeste non s'è mai dimostrato tale, continuando a pagare oltre il lecito la pur determinante assenza di Luis Suarez per la nota squalifica post-morso-mondiale.
La descrizione perfetta per rendere l'idea di come l'Uruguay abbia deciso di affrontare il Cile allo stadio Nacional di Santiago l'ho sentita durante la telecronaca, inviata tramite Twitter da un telespettatore alla redazione di GazzettaTv: "L'Atletico Madrid del Cholo rispetto all'Uruguay di Tabarez gioca il calcio totale". E, in effetti, è proprio così, perché "El Maestro" ha puntato su 11 uomini dietro la linea della palla, su un atletismo esasperato, sulla "garra" oltre i limiti dell'intimidazione fisica, su una feroce rabbia agonistica e sul continuo ricorso a tanti trucchetti tipici dell'anti-calcio. Da parte sua, il Cile ha dominato la partita ma, per lunghi tratti, s'è fatto bloccare nella palude uruguayana, concedendo addirittura agli avversari anche due-tre insidiose palle-gol nel secondo tempo.
Alla fine, però, seppur con l'Uruguay ridotto in 9 per le espulsioni di Cavani e Fucile (oltre che di Tabarez), è stato giusto che in semifinale ci sia andata la Roja, protesa verso la vittoria per tutto il match. In tal senso, il gol di Isla (migliore in campo) per il decisivo 1-0 a una decina di minuti dalla fine è stato un premio meritato. 
Bolivia - Perù 1-3
Nel secondo quarto di finale, quindi, il Perù ha schiantato la Bolivia ben più di quanto dica il 3-1 finale, grazie a una tripletta di un inarrestabile Paolo Guerrero, "El Barbaro", appena mitigata a pochi minuti dal 90esimo da un rigore trasformato per la Verde da Marcelo Moreno.
S'è mostrato troppo più forte, per la malcapitata Bolivia, questo Perù ottimamente messo in campo dal "Tigre" Gareca (che belli i soprannomi nel calcio sudamericano!), abile e pragmatico nel puntare sulla buona tecnica dei suoi, sulle loro veloci ripartenze e su un notevole atletismo diffuso.
Tra le individualità peruviane, oltre al match-winner Guerrero, mi hanno colpito ancora una volta il poderoso terzino destro Advincula (che io comprerei subito) e l'esperto centrale difensivo Zambrano.
E, in semifinale, i padroni di casa del Cile faranno bene a tenere gli occhi aperti, perché con questo Perù c'è poco da scherzare. 
Argentina - Colombia 5-4 dopo i calci di rigore (0-0)
Dall'altra parte del tabellone dei quarti di finale, invece, tutto sembrava apparecchiato per arrivare a una semifinale "nobile" tra Argentina e Brasile. Ma gli enormi limiti tecnico-tattici e caratteriali dei verdeoro, ulteriormente ingigantiti dall'assenza per squalifica della stella Neymar, hanno avuto la meglio anche sulla volontà degli organizzatori.
La notte prima di Brasile-Paragyuay, però, aveva fatto il suo dovere l'Argentina del "Tata" Martino, qualificatasi alle spese della Colombia in quello che sulla carta era certamente il match clou dei quarti. La corazzata albiceleste, però, aveva comunque dovuto ricorrere ai calci di rigore (in Copa non si giocano i supplementari), dopo che le alchimie tattiche e la difesa a oltranza dei Cafetèros - che tiravano per la prima e unica volta nello specchio della porta addirittura al 67esimo minuto! - e almeno tre fantastiche parate del loro portiere Ospina (più due legni e tante altre occasioni sprecate) avevano impedito che si concretizzasse una superiorità tecnica piuttosto evidente degli argentini.
A tenere in gioco i colombiani, a mio avviso, hanno contribuito anche le cervellotiche scelte di Martino, che ha tenuto in campo oltre il lecito un Aguero evidentemente fuori partita e continua a ignorare il bisogno che la sua squadra ha di un centravanti come Higuaìn, di maggior peso fisico-atletico e, al tempo stesso, ideale per dialogare nello stretto con Leo Messi. Comunque, l'Argentina a tratti ha dato spettacolo e qualora dovesse realmente sbloccarsi in fase realizzativa potrebbe vincere a man bassa la Copa. Ai rigori, un errore del neointerista Murillo e la decisiva trasformazione di Tevez hanno fatto la differenza.  
Brasile - Paraguay 4-5 dopo i calci di rigore (1-1)
Infine, il Paraguay ottimamente allenato da Ramòn Diaz ha superato, con grande merito, il più blasonato Brasile, vincendo soltanto dopo i calci di rigore ma dopo aver dimostrato la propria superiorità già durante i 90 minuti.
La nazionale biancorossa non s'è scomposta, infatti, nemmeno di fronte al vantaggio brasiliano siglato da Robinho e ha continuato a giocare secondo il suo piano tattico, lineare ma efficace, contenendo gli avversari con una certa tranquillità e attaccandoli con costanti e pericolosissime ripartenze. Così, il pareggio giunto nel finale su un giusto calcio di rigore - assegnato per l'ennesimo, assurdo fallo di mano in area di un Thiago Silva in evidente fase calante della carriera; e trasformato con grande freddezza dalla stellina Derlis Gonzalez - è sembrato l'esito quasi logico di quanto si era visto fino a quel momento sul terreno di gioco.
Un Brasile costruito dallo spaesato Dunga con un onesto mestierante tra i pali (Jefferson), un centrocampo a due incapace di costruire gioco, un trio di pallidi trequartisti alle spalle di un centravanti inesistente non poteva, onestamente, puntare a niente di più, soprattutto nel momento che lo ha visto privo del suo unico calciatore di livello mondiale (Neymar). Il Paraguay, invece, ha dimostrato ancora una volta di non mollare mai - già nel match d'esordio aveva rimontato un doppio svantaggio alla corazzata Argentina - ma, soprattutto, ha messo in evidenza un gioco collaudato e con una sua logica, un grande ordine tattico (Diaz si conferma allenatore di rango) e alcuni uomini di notevole interesse, a partire dagli sguscianti e tecnici esterni offensivi Derlis Gonzalez (21 anni, del Basilea, tra le stelle del torneo) ed Edgar Benitez.
In semifinale, dunque, anche l'Argentina - come il Cile contro il Perù, dall'altra parte del tabellone - dovrà affrontare l'impegno col giusto spirito e con grande serietà, perché questa Copa America 2015 ha già dimostrato che le sorprese sono sempre dietro l'angolo.

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giovedì 18 giugno 2015

copa america: continua il "mistero zuñiga"

Di Diego Del Pozzo

Per un tifoso del Napoli, assistere alle partite della Colombia in Coppa America è un'esperienza "ai confini della realtà". Si rischia di venire colpiti molto positivamente, infatti, dalle ottime prestazioni di un laterale destro di livello mondiale, fortissimo in fase di copertura e di spinta, tonico atleticamente (!!!), esperto, grintoso, puntuale nelle chiusure difensive e nei cross, persino carismatico quando si tratta di andare a separare compagni e avversari durante una rissa o di dare indicazioni al resto della squadra in un momento di particolare sofferenza.
Il problema è che questo giocatore si chiama Juan Camilo Zuñiga ed è sotto contratto proprio per il Napoli, dove è il più pagato dell'intera rosa dopo Gonzalo Higuaìn. Anzi, il problema vero è che questo giocatore, in pratica, non gioca una partita intera nel Napoli da due anni, mentre nel frattempo ha disputato da titolare inamovibile della sua Nazionale un ottimo Mondiale l'anno scorso e sta giocando con eccellenti risultati in questi giorni in Coppa America.
Qualcuno, per favore, può aiutarmi a venire a capo di questo mistero degno dei migliori episodi della serie tv "Ai confini della realtà"?
Ps: Per la cronaca, stanotte la Colombia ha battuto 1-0 il Brasile e Zuñiga ha concluso il match con la fascia di capitano al braccio. 
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martedì 2 giugno 2015

napoli: due anni belli ma deleteri?

Di Giuseppe Cascone

"I bilanci si fanno alla fine", abbiamo detto spesso durante questo campionato così stressante. E ora che la stagione del Napoli si è chiusa, provo una veloce analisi, al di là dei numeri che, purtroppo, sono impietosi. Faccio mia la frase di un amico, che ieri mattina mi ha detto: "Sono stati due anni belli ma deleteri". Credo che sia proprio così.
C'è stata, infatti, la grande bellezza del calcio-spettacolo, che in alcune gare ci ha esaltato. Ci sono stati due trofei in due anni (e per noi è grasso che cola). Ma ci sono state anche sconfitte umilianti, occasioni perse, giocatori alla lunga svalutati. E poi l'ambiente... Una stucchevole, noiosa, stupida battaglia ideologica che - oltre a generare antipatie verso il Napoli di Benitez - ha inciso retrospettivamente anche sulla memoria del Napoli di Mazzarri e di Cavani, una delle squadre più formidabili della nostra storia. Una battaglia ideologica senza senso.
Gonzalo Higuaìn dopo aver fallito il rigore decisivo in Napoli-Lazio 2-4
Lasciamo perdere il principale quotidiano della città, oppure commentatori campani di giornali e televisioni nazionali (da Malfitano a Criscitiello, ecc.): è gente che ha attaccato Benitez come faceva con Mazzarri. Ma leggere un sito rafaelita che, ancora ieri, parlava di internazionalizzazione del Napoli e di Napoli è sconfortante. Napoli, infatti, con tutti i suoi problemi profondi e dolorosi, è una capitale europea della cultura, come lo stesso Benitez ha più volte riconosciuto.
Quanto poi al business plan e alla cultura aziendale, se dovessimo valutare solo con questo metro, tra i tre anni di Mazzarri e i due di Benitez, in termini di risultati netti e di profitto, non ci sarebbe confronto. Infine, il calcio internazionale che sempre lo stesso sito rafaelita blandisce come una clava è anche quello nel quale si esonera Ancelotti dopo una Champions League vinta e un secondo posto e nel quale Guardiola è sull'orlo dell'esonero dopo due campionati vinti in due anni e due semifinali di Champions League.
In conclusione: del Napoli di Benitez mi mancheranno tanto la classe, l'eleganza e la capacità di stordire e schiacciare gli avversari in alcune partite (il quarto di finale d'andata di Europa League con il Wolfsburg resterà impresso per sempre nella mente e nel cuore). Quello che mi manca, invece, del Napoli di Mazzarri (che mi è mancato in questi due anni, che mi è mancato domenica sera in occasione di Napoli-Lazio) è ciò che lui chiamava "l'anima", ovvero la capacità di non mollare fino all'ultimo secondo, la personalità di squadra, il sacrificio, l'applicazione feroce.

Sarebbe davvero bello se il futuro allenatore del nostro amato Napoli riuscisse nella sintesi miracolosa tra i due Napoli degli anni '10 del XXI secolo, comunque tra le squadre azzurre migliori di sempre. Adiòs, Rafa. Aspettiamo con fiducia e speranza il tuo successore. Buon viaggio.

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lunedì 1 giugno 2015

napoli: diario personalissimo di quattro mesi vissuti pericolosamente

Di Diego Del Pozzo

Rompo il lungo silenzio del mio blog recuperando i post che ho pubblicato in questo periodo (da metà febbraio a oggi) su Facebook, per assemblare un personalissimo "diario azzurro" di quattro mesi e mezzo vissuti pericolosamente, tra polemiche, illusioni, delusioni, fallimenti, rimpianti.

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14 febbraio (dopo Palermo - Napoli 3-1 e la clamorosa papera di Rafael, che lo farà finire in panchina fino al termine della stagione)
Ci hanno fatto (rosa)neri! Però, certo, avere anche il portiere aiuterebbe...
Credo che nei confronti di Rafael pesi molto l'atteggiamento da maestro di Benitez, che vuole far crescere un giovane del quale, evidentemente, percepisce le potenzialità. E' anche vero, però, che oggi come oggi Andujar offre molte più garanzie e maggiore sicurezza, anche ai compagni. Finora, la stagione del Napoli è paradossale: domina quasi sempre le partite, perché sa che ogni volta che subisce un tiro in porta arriva il gol avversario. Con un portiere tra i pali avrebbe almeno sei-sette punti in più.

24 febbraio (dopo Napoli - Sassuolo 2-0)
Il nostro centravanti di riserva farebbe comodo come titolare a parecchie squadre di Serie A, anche ad alcune di vertice. Per fortuna, però, lo abbiamo noi, inserito all'interno di una rosa che, sotto Benitez, è sempre più ampia e qualitativa.
Ah, a proposito, stasera Duvàn Zapata ha letteralmente travolto il Sassuolo.

2 marzo (dopo Torino - Napoli 1-0)
Il Napoli stasera ha perso perché non ha messo tutto in campo. E contro l'ottimo Torino di questo periodo (12 risultati utili consecutivi, togliendo punti anche a Juventus, Inter e Fiorentina, oltre che agli azzurri) bisognava mettere tutto in campo.
Comunque, riassumendo, primo tempo sotto tono, poi primi 20 minuti della ripresa col Torino schiacciato nella sua metà campo, quindi follia di Koulibaly che regala ai granata il calcio d'angolo decisivo e rovescia l'inerzia del match, infine forcing confuso del Napoli fino al fischio conclusivo. Anche così, il pareggio sarebbe stato comunque meritato.
Il Torino fa quello che doveva fare, chiudendo ogni spazio, tenendo 11 uomini dietro la linea della palla e facendo densità in modo fantastico. Il Napoli poteva fare di più, ma l'errore di Koulibaly cambia il corso del match. Senza quell'episodio, nella mezz'ora finale probabilmente gli uomini di Benitez avrebbero portato il match a casa (con i granata in calo, per ammissione dello stesso Ventura).
Detto ciò, al Torino vengono risparmiate dall'arbitro ben due espulsioni: prima a El Kaddouri e poi a Quagliarella, entrambi già ammoniti e autori di brutti falli meritevoli del secondo giallo. Nel post-partita in tv, Benitez si riferiva soprattutto a questi due episodi, anche se nessun commentatore ha avuto la decenza e l'onestà di farlo notare.
In ogni caso il "Sono stanco!" di Rafa è destinato a fare molto rumore e a lasciare qualche strascico.

giovedì 12 febbraio 2015

coach "pop", coach rafa e la costruzione di un ambiente vincente

Di Diego Del Pozzo
(Il Napolista - 11 febbraio 2015)

Le mille vittorie in carriera ottenute nella notte italiana di lunedì da Gregg Popovich alla guida dei suoi San Antonio Spurs, l’unica squadra allenata in 19 anni come head coach Nba, sono l’occasione perfetta per qualche riflessione sulle caratteristiche necessarie per la costruzione di un team e di un ambiente vincenti.
Gregg Popovich
Innanzitutto, va ricordato che da lunedì notte l’uomo chiamato “Pop” – tre volte coach dell’anno (2003, 2012, 2014) e cinque titoli di campione in bacheca (1999, 2003, 2005, 2007, 2014) – è diventato appena il nono tecnico nella storia del basket Nba a raggiungere il traguardo dei mille successi in carriera; nonché il secondo, dopo Jerry Sloan con gli Utah Jazz, a farlo alla guida di una sola squadra e il terzo per la velocità con la quale è riuscito a toccare la fatidica soglia: in 1.462 gare, contro le 1.434 di Pat Riley e le 1.423 di Phil Jackson. Lo ha fatto costruendo, assieme al general manager RC Buford, un meccanismo perfetto che probabilmente non ha eguali nel mondo degli sport professionistici americani: una franchigia nella quale tutti remano dalla stessa parte e anche le star mettono da parte il proprio ego e sono inserite in un contesto nel quale tutto ruota intorno al concetto di gruppo.
Si tratta della celeberrima Spurs Culture, che Flavio Tranquillo (la voce italiana del basket Nba) prova a definire così, nel suo bellissimo libro di recente uscita Altro tiro, altro giro, altro regalo: «Un concetto ben più ampio del segretissimo elenco di giochi offensivi, regole difensive e precetti di comportamento che da essa discendono come le altre leggi si rifanno alla Costituzione tramite la gerarchia delle fonti. Cosa sia questa Spurs Culture possono saperlo nei dettagli solo gli adepti dell’organizzazione; a noi deve bastare conoscerne l’esistenza e rilevarne qualche rara manifestazione esterna. […] Solo andando al di là delle apparenze e ragionando oltre l’immediato si crea qualcosa di stabile e duraturo, tipo una cultura o un sistema. […] Non c’è Dinastia cestistica che non abbia utilizzato i termini “cultura” e “sistema” per spiegare le proprie vittorie, proprio come le aziende di successo. […] Il sistema e la cultura sono i mezzi migliori per raggiungere il risultato, non un omaggio alla democrazia ateniese. […] Sono i concetti di team building e sense of belonging (senso di appartenenza) che tanta diffusione hanno in economia aziendale, non in filantropia. Per vincere ci vogliono ruoli chiari, delineati dall’allenatore e condivisi, per forza e/o amore, dai giocatori. Chi non si conforma ai valori dell’impresa, in spursese si dice corporate knowledge, può già mettere sul letto la valigia di un lungo viaggio». E, non a caso, la Spurs Culture è incarnata proprio in colui che rappresenta la massima stella della franchigia texana, quel Tim Duncan che è l’emanazione stessa di Popovich sul parquet e che col coach (ex agente della Cia, mai dimenticarlo!) ha condiviso addirittura 929 delle sue mille vittorie.
Naturalmente, per essere correttamente applicati, i concetti di “sistema” e “cultura” richiedono tempo, pazienza, fiducia e maturità da parte dell’ambiente circostante, senza sondaggi contro o campagne stampa alle prime difficoltà. Si tratta di quella stessa pazienza e maturità che ha permesso a Gregg Popovich di costruire in tre anni (dal 1996 al 1999) la squadra del primo titolo di San Antonio (a Napoli sarebbe stato esonerato al secondo anno) e che, più di recente, gli ha permesso di tenere ben saldo il timone tra le mani nonostante l’assenza di titoli tra il 2007 e il 2014 (con tanto di sanguinosa finale 2013 persa contro Miami). D’altra parte, proprio queste sono le medesime caratteristiche che, tornando in ambito calcistico, hanno fatto sì che un giovane Alex Ferguson (non ancora Sir) potesse restare sulla panchina del Manchester United dal novembre 1986 per tre anni e mezzo senza vincere nulla, fino alla F.A. Cup conquistata a maggio 1990, soltanto il primo dei tantissimi trofei poi vinti nei suoi leggendari 26 anni a Old Trafford. O che Arsène Wenger continuasse a guidare con mano salda l’Arsenal per vent’anni (li festeggerà ad agosto), nonostante gli “zero tituli” ottenuti tra il 2005 e il 2014.
Morale della favola: quando si trova un grande coach capace di costruire un sistema o dare vita a una cultura (molti lo chiamano “progetto”) bisogna tenerselo stretto, a tutti i costi, aspettando prima di lanciarsi in processi sommari che, dopo pochi mesi, rischiano di trasformarsi in dolorosissimi boomerang.

spirito di gruppo...

Vittoria in scioltezza contro una discreta Udinese, da squadra matura e senza sprecarsi più di tanto.
Prima o poi anche a Sky Sport se ne faranno una ragione...

mercoledì 11 febbraio 2015

la serie a è sempre più provincia: una mia riflessione "napolista"

Di Diego Del Pozzo
(Il Napolista - 30 gennaio 2015)

La cessione di Cuadrado al Chelsea da parte della Fiorentina rappresenta l'ennesima stridente conferma dell'attuale status della Serie A italiana, che nella considerazione degli addetti ai lavori internazionali è, ormai, al medesimo livello del campionato olandese o di quello belga: tornei buoni per far crescere i giovani talenti e i campioni del domani, in modo da poterli poi acquistare appena questi salgono di livello e, al tempo stesso, aumentano le loro pretese economiche.
In un contesto di questo tipo, temo che la maggior parte degli osservatori italiani e, purtroppo, anche la quasi totalità dell'ambiente napoletano non abbiano dato il giusto peso (che è enorme) all'acquisto di Gonzalo Higuaìn da parte del Napoli, che nell'estate 2013 è riuscito a strapparlo addirittura al Real Madrid, pagandolo ben 40 milioni (senza prestiti o formule astruse) e convincendolo a lasciare un torneo di prima fascia come la Liga per venire a giocare nella derelitta Serie A. Naturalmente, per la riuscita di una simile operazione di mercato è stata fondamentale la presenza di Rafa Benitez sulla panchina azzurra.
Ma, sia come sia, era dai tempi del passaggio di Eto'o (quello vero, non questo del 2015) dal Barcellona all'Inter di Mourinho (peraltro, nell'ambito di uno scambio con Ibrahimovic) che una stella conclamata del calcio internazionale non lasciava un top club straniero per venire a giocare in Italia. Da allora, in Serie A sono arrivati soltanto talenti in rampa di lancio (Pogba, Kovacic, Iturbe, Marquinhos, Morata, ecc.), calciatori di livello medio-alto provenienti da squadre medie (Vidal, Llorente, Medel, Gervinho, Biglia, Djordjevic, Joaquin, ecc.) o stelle stagionate pronte a sparare le ultime cartucce delle loro gloriose carriere (Klose, Essien, Saviola, Evra, Cole, ecc.). Il caso Tevez-Juventus è differente, perché i bianconeri lo hanno preso a condizioni assolutamente di favore mentre era fuori rosa (da mesi) nel Manchester City. E, comunque, in Italia l'Apache ci è giunto da trentenne.
L'acquisto di Gonzalo Higuaìn da parte del Napoli, dunque, costituisce assolutamente un unicum per una squadra di Serie A di questi anni. E già soltanto per una simile operazione di mercato, capace di sprovincializzare l'asfittico panorama calcistico italiano, il Napoli meriterebbe una considerazione maggiore da parte degli addetti ai lavori.

a madrid comanda ancora l'atletico di simeone

Di Diego Del Pozzo

Dopo il derby di sabato pomeriggio andato in scena al Vicente Calderòn, Madrid resta biancorossa.
L'Atletico di Simeone, infatti, ha asfaltato letteralmente il Real capoclassifica con un roboante 4-0, frutto di due gol per tempo e ideale per ricordare agli avversari (a tutti: anche al Barcellona) che gli indomiti Colchoneros sono ancora la squadra campione di Spagna in carica. E che, per la vittoria finale nella Liga, bisognerà continuare a fare i conti anche con loro.
Il Real ha subìto dall'inizio alla fine il ritmo e la voglia di vincere dell'avversario e ha fatto il primo tiro nello specchio della porta addirittura all'82esimo minuto. E il risultato sta persino stretto agli uomini di Simeone, che si sono visti negare un rigore evidente e sono stati fermati mentre andavano in porta per un fuorigioco inesistente.
Ancelotti adesso dovrà parlare molto seriamente con i suoi campioni, oggi completamente assenti dal campo. Anche perché all'orizzonte c'è anche la ripresa della Champions League.
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un week-end a tutto derby in premier league

Di Diego Del Pozzo

Lo scorso fine settimana di Premier League è stato monopolizzato da due tra i derby più tradizionali e sentiti dell'intero panorama calcistico britannico e internazionale.
Il primo, quello di Londra Nord tra Tottenham e Arsenal, è stato vinto 2-1 dagli Spurs, meritatamente, rimontando lo svantaggio iniziale siglato da Özil nel primo tempo grazie a una doppietta di Harry Kane (qui nella foto) nella ripresa, dominata dagli uomini di Pochettino, capaci di sfiorare il gol a ripetizione e di schiacciare i Gunners nella loro metà campo.
Come al solito in match di questo tipo, si sono visti ritmo elevatissimo e zero pause, voglia di vincere da parte di tutte e due le squadre (tra le più in forma della Premier League), tante belle giocate realizzate a velocità superiore e ambiente fantastico sugli spalti di White Hart Lane.
Il Tottenham ha vinto perché ha mostrato più voglia dell'Arsenal e, soprattutto, ha potuto contare su questo Kane sempre più maturo e decisivo: 21 anni e mezzo appena, centravanti moderno, forte fisicamente ma agile e veloce, dotato di buona tecnica e straordinaria volontà di primeggiare. È tra le stelle emergenti del panorama calcistico internazionale e, se prosegue su questa strada, sarà tra i dominatori dei prossimi anni. Intanto, alla sua prima presenza nel North London Derby, lo ha risolto alla maniera dei predestinati.
L'ultimo Merseyside Derby della carriera di Steven Gerrard (che a fine stagione lascerà i Reds) s'è concluso, invece, 0-0 nella magnifica cornice di Goodison Park. Il pareggio non serviva né all'Everton né al Liverpool e, infatti, le due squadre hanno provato a superarsi fino al fischio finale.
Ai punti, si sono fatti preferire gli uomini di Brendan Rodgers, che hanno concluso per sei volte nello specchio della porta avversaria (colpendo anche un palo, nel primo tempo). I Toffees di Roberto Martinez, però, hanno rischiato il colpaccio nei minuti finali, quando Coleman ha costretto Mignolet a una parata decisiva.
In ogni caso, pur restando tutte e due lontane dalla vetta della Premier League, Everton e Liverpool anche stavolta hanno offerto uno spettacolo da calcio inglese puro, fatto di ritmo quasi ossessivo, tanta corsa, agonismo feroce, pochi tatticismi e inesauribile voglia di vincere. Ce ne fossero di match così anche alle nostre latitudini...
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venerdì 30 gennaio 2015

incubo 2 (cit.)

Di Diego Del Pozzo

Stanotte ho sognato che la Juventus aveva battuto il Parma, eliminandolo dalla Coppa Italia, grazie a un gol decisivo in fuorigioco netto segnato a un minuto dal fischio finale. Ho sognato che il guardalinee era in perfetta posizione per segnalare l'off-side, ma preferiva tenere abbassata la bandierina.
Questo si chiama fuorigioco
Per fortuna, però, deve essere stato soltanto un brutto sogno, perché sia ieri sera nei commenti post-partita sulla Rai e su Sky, sia stamattina in tutti i notiziari specializzati (per esempio, in quello di Sky Sport 24), di questo netto fuorigioco non vi era traccia.
Evidentemente, ieri sera ho mangiato un po' pesante e devo aver avuto una cattiva digestione. ‪#‎Cipuòstare‬.
Ps: D'altra parte, quando una grande squadra ottiene una vittoria grazie (anche) a qualche svista arbitrale (ma c'è svista e svista...), i solerti e imparziali commentatori televisivi italiani imbastiscono veri e propri processi sommari in diretta, come fatto pochi giorni fa con Rafa Benitez dopo le vittorie del Napoli con l'Udinese e col Genoa. Dunque, deve essere stato davvero soltanto un brutto sogno... Meno male... Mi sarebbe dispiaciuto per il povero e indifeso Parma, se fosse stato utilizzato come vittima predestinata...
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giovedì 29 gennaio 2015

una nuova coppa italia è possibile? perché non facciamo le final eight?

Di Diego Del Pozzo

Ieri pomeriggio, sono intervenuto come ospite telefonico durante il programma calcistico ClubNapoli AllNews in onda sull'emittente locale napoletana Teleclubitalia. L'argomento della puntata era la possibile e, anzi, auspicabile riforma della Coppa Italia, per renderla più appetibile per gli appassionati (come avviene un po' ovunque, nelle nazioni calcisticamente evolute, dall'Inghilterra alla Spagna, dalla Germania alla Francia) e, magari, anche per porre fine alle sconcezze che si stanno verificando nell'edizione di quest'anno, funestata da ricorrenti errori arbitrali, spesso decisivi, ai danni delle società meno potenti, blasonate e mediaticamente rilevanti.
La più recente è di ieri sera, quando la grande Juventus ha eliminato il piccolo e derelitto Parma soltanto al novantesimo minuto grazie a un gol palesemente irregolare (fuorigioco non fischiato). Ma già negli altri match disputati durante il mese di gennaio avevano potuto godere di favori arbitrali evidentissimi anche Roma e Fiorentina (rigori inesistenti fischiati contro Empoli e Atalanta) e, seppur in misura minore, Inter, Napoli e Milan (opposte a Sampdoria, Udinese e Sassuolo). A un osservatore esterno, completamente neutrale, una tale meccanica ripetizione dell'errore arbitrale a senso unico (sempre a favore delle cosiddette "grandi") potrebbe persino suggerire l'ipotesi paranoica di una regia unica Lega-Rai-Tim (il torneo si chiama Tim Cup ed è la sola esclusiva calcistica Rai di un certo rilievo) finalizzata a ridurre al minimo qualsiasi rischio di non avere tutte le squadre più importanti presenti nelle fasi finali della coppa. Tutto ciò, peraltro, avviene nel quasi totale disinteresse dei mass media e di fronte agli spalti semivuoti di stadi anche prestigiosi come San Siro, l'Olimpico, il San Paolo.
E allora? Che cosa si può fare per rilanciare una competizione che, così com'è, è destinata a una vita ancora più ingloriosa e probabilmente non troppo lunga? Se lo sono chiesto gli amici di ClubNapoli AllNews, i quali dopo aver letto alcune mie considerazioni pubblicate nei giorni scorsi su Facebook hanno avuto la bontà di ospitare il mio intervento telefonico (qui una loro sintesi dal sito web dell'emittente) nel corso della puntata monografica interamente dedicata al tema della riforma della Coppa Italia (per la quale hanno lanciato anche un apposito hashtag: #unanuovacoppaitalia).
La mia idea-provocazione parte da un semplice assunto: se i vertici del calcio italiano vogliono una coppa riservata soltanto alle squadre d'elite, allora perché non ufficializzare tutto ciò con una nuova formula, che però sia capace anche di trasformare il torneo in un evento (cosa che oggi certamente non è), di valorizzare il brand "Coppa Italia" per attrarre più sponsor, catturare più attenzione mediatica e, magari, tornare a riempire gli stadi evitando così gli spettacoli indecorosi di queste settimane? La soluzione per me è molto semplice: il calcio deve copiare dal basket e adottare la formula delle Final Eight. Coppa Italia, dunque, riservata alle prime otto classificate al termine del girone d'andata di Serie A (così, si lotterebbe nei primi mesi della stagione anche per un ottavo o un settimo posto); tabellone tennistico con incroci tra la prima e l'ottava, la seconda e la settima, la terza e la sesta, la quarta e la quinta; partite a eliminazione diretta da disputare in campo neutro; intero torneo da realizzare in una sola città (con i soli quarti di finale divisi tra due località) nella seconda metà di gennaio, fermando la Serie A per una settimana, con partite previste di giovedì (quarti di finale: due in una città, alle ore 15 e alle 19; due in un'altra, alle 17 e alle 21), domenica (le due semifinali, alle 18 e alle 21) e mercoledì (la finale, alle ore 21); copertura mediatica massiccia, con diretta tv di tutti gli incontri, forte presenza sui social network e attività collaterali di vario tipo, diffuse sull'intero territorio della città ospitante (premi, mostre, concerti, incontri con i protagonisti, concorsi on line, iniziative di marketing virale, ecc.); inserti speciali realizzati sui principali quotidiani sportivi nei giorni precedenti; spazio apposito all'interno dell'album Calciatori Panini, con l'azienda modenese che, per esempio, potrebbe presentare proprio in quei giorni e in quel contesto le speciali figurine raffiguranti i protagonisti del girone d'andata di Serie A. In tal modo, il brand inizierebbe ad acquisire valore e il torneo potrebbe recuperare quei connotati di evento che oggi, purtroppo, non ha affatto.
Alle accuse di scarsa democraticità di un torneo impostato in questo modo, potrei rispondere facendo notare che con la formula d'elite almeno non si prenderebbe in giro nessuno e non si farebbero perdere energie preziose a piccole squadre come l'Empoli che, magari, provano a dare tutto nella partita di coppa, vengono umiliate da pessimi arbitraggi ed eliminate e poi pagano dazio nella successiva giornata di campionato, per l'eccessivo dispendio di energie e la rosa non adeguata al doppio impegno rispetto a una società più importante e ricca.
Detto ciò, però, alla mia provocazione mi piacerebbe che si potesse rispondere, invece, con una Coppa Italia completamente agli antipodi rispetto a questa da me immaginata, sul modello della F.A. Cup, con apertura all'intero movimento calcistico nazionale (anche a quello dilettantistico), sorteggio integrale senza nessuna tutela sia dell'avversario che del campo di gioco, partita secca a eliminazione diretta con eventuale replay a campi invertiti in caso di parità, semifinali e finale in campo neutro. Ma questa penso che sia un'utopia. D'altra parte, loro sono inglesi, mentre noi siamo italiani...

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un napoli in netta ripresa inizia il 2015 tornando terzo

Di Diego Del Pozzo

Il 2015 del Napoli è iniziato, nel giorno dell'Epifania, nel segno del compianto Pino Daniele, ricordato con grande intensità prima dell'avvio del match di campionato a Cesena (quello della ripresa dopo la pausa per le festività), poi vinto piuttosto agevolmente contro un avversario troppo più debole, che però è stato comunque dominato dagli azzurri col piglio della grande squadra. Nel 4-1 del "Manuzzi" sono andati in gol tutti i "tenori", Hamsik (migliore in campo) è apparso pienamente recuperato, Rafael in porta è sembrato addirittura un altro, il diffidato Koulibaly è stato tenuto a riposo, il neo-acquisto Gabbiadini è sembrato già scalpitante (così come il nuovo terzino sinistro Strinic).
Il discusso scontro Buffon-Koulibaly
Quattro giorni dopo, come seguito della recente finale di Supercoppa, è arrivato il giorno di Napoli-Juventus 2, stavolta di fronte ai 60mila tifosi azzurri del San Paolo e non ai 13mila sceicchi silenziosi di Doha. Ma tra azzurri e bianconeri è venuta fuori una partita brutta, tesissima, spezzettata, male arbitrata, messa dalla Juve sul piano che le è più congeniale, col Napoli che non è riuscito quasi mai a esprimere il proprio gioco e ha agito soltanto a sprazzi, mai in modo fluido e continuo. La squadra bianconera, così, è tornata a vincere al San Paolo dopo ben 14 anni, mostrandosi più concreta, esperta e solida mentalmente rispetto agli uomini di Benitez.
Detto ciò, però, dopo l'1-1, col Napoli in pressione e la Juventus in difficoltà, il secondo gol bianconero è stato segnato da Caceres in netto fuorigioco, tagliando le gambe agli azzurri. Inoltre, al Napoli è stato annullato un gol per fallo inesistente di Koulibaly su Buffon, col portiere che, leggermente sbilanciato da Chiellini mentre è in uscita alta, ha perso la palla cadendo, lui, addosso al difensore azzurro, nonostante ciò che ne hanno detto, poi, gli ex juventini Vialli e Ferrara e la fidanzata di Buffon nel sempre più partigiano post-partita di Sky Sport. A parti rovesciate, nei commenti del post-gara, si sarebbe parlato del solito grave errore difensivo del Napoli e di una mezza papera di Rafael. In questo caso, invece, quasi tutti gli opinionisti catodici sono accorsi compatti a nascondere l'infortunio della difesa e del portiere della Juventus e a sottolineare l'evidenza del fallo del per me incolpevole Koulibaly. Tornando all'arbitraggio, però, ho trovato ancora più fastidioso l'atteggiamento complessivo del "mitico" Tagliavento nei confronti dei giocatori bianconeri, ai quali continuano a essere permesse cose (proteste sguaiate, perdite di tempo, atteggiamenti intimidatori) che, in Italia, non vengono concesse a nessun altro. 
Dopo il fischio finale, anche un signore come Rafa Benitez ha perso l'abituale pazienza: "Sono arrabbiato - ha dichiarato l'allenatore del Napoli - e ne ho diritto perché ci sono buone ragioni per esserlo. Ogni volta che giochiamo con la Juve mi hanno insegnato la frase "Ci può stare". Allora ci può stare sempre. Ci può stare perché le decisioni si dice siano difficili. Ma è così difficile vedere Chiellini con un turbante bianco ed una maglia bianconera così come quella di Caceres al di là dei nostri difensori? Credo nella buona fede degli arbitri ma lasciatemi dire che non si può adesso analizzare tecnicamente in maniera corretta una partita condizionata da un errore decisivo che cambia i valori in campo. Mi spiace perché la squadra aveva recuperato il risultato e stava salendo come livello di gioco. Quell'episodio ha cambiato tutto, ma anche il gol annullato a noi mi pare strano. E' stato Buffon a sbattere su Koulibaly in uscita, la palla era in gioco in quel momento e non vedo alcun fallo. Questa partita poteva cambiare l'aspetto della classifica. Noi lavoriamo sempre per essere ad alti livelli con le prime, oggi sono soddisfatto dell'atteggiamento della squadra, ma ripeto che sono arrabbiato e ci sono valide ragioni".
Higuaìn, decisivo anche con Lazio e Genoa
Per fortuna, però, il momento di netta ripresa del Napoli ha trovato una nuova conferma in occasione della successiva partita di campionato, con un grande match difensivo degli azzurri (molto simile a quello di Firenze), capaci di portare a casa tre punti importantissimi espugnando il campo di un'ottima Lazio, con un gol decisivo di Higuaìn a metà del primo tempo. La squadra di Pioli (complimenti!) nonostante le tante assenze non ha rinnegato la propria identità di gioco e ha impostato una gara sempre propositiva, alla ricerca di un gol che, però, non è arrivato grazie alla notevole applicazione degli uomini di Benitez e alla loro concentrazione costante. Dunque, Lazio che ha fatto la partita e ha spinto molto, ma Napoli che, tutto sommato, ha rischiato pochissimo e soprattutto nel primo tempo, mentre nel secondo ha controllato senza troppi affanni ed è ripartito pericolosamente in veloci contropiede, sfiorando ripetutamente il raddoppio. Tra le fila degli azzurri, gran partita di Albiol, ben spalleggiato da Koulibaly; buon esordio di Strinic a sinistra; importante il lavoro della diga di centrocampo Gargano-Lopez, con De Guzman prima e Hamsik poi efficaci nel ricucire fase difensiva e ripartenze offensive; davanti, naturalmente, Higuaìn decisivo come sanno esserlo i fuoriclasse. Lazio - Napoli era una specie di finale. E le squadre di Benitez, di solito, le finali le vincono.
Il girone di ritorno del Napoli, quindi, è iniziato lunedì sera in casa col Genoa: vittoria per 2-1 e azzurri (in jeans) di nuovo terzi in classifica da soli a 6 punti dal secondo posto di una Roma in netto rallentamento. Però, poiché il provocatorio #cipuòstare di Rafa Benitez ha evidentemente scatenato un vespaio sui media e i suoi attacchi alla presunta sacralità della Juventus hanno dato il via al fuoco violento degli amici degli amici (pronti a tutto pur di difendere le loro posizioni di potere e privilegio), cerco di essere il più netto possibile nel mio giudizio su questa partita: 1) il Napoli l'ha dominata e avrebbe potuto e dovuto vincerla 6-1; 2) il fallo da rigore di Kucka su Higuaìn che tante polemiche ha sollevato è nettissimo; 3) nel primo tempo, può esserci un altro rigore non fischiato per il Napoli; 4) Higuaìn viene fermato per due volte con falli da dietro da ultimo uomo, senza che l'arbitro fischi fallo ed espulsione del difensore genoano; 5) sul suo primo gol, a un certo punto dell'azione il Pipita si trova in leggerissimo (quasi impercettibile) fuorigioco, complicato da giudicare da parte di un guardalinee non ben allineato.
Sugli episodi 2 e 5, già durante la telecronaca, s'è messa in moto la "macchina del fango" di Sky Sport (gli amici degli amici di cui sopra), potenziata ulteriormente nel post-partita e utilizzata in funzione pro-juventina (per la serie: a fine campionato torti e ragioni si compensano). Sono stati francamente vergognosi. E mi hanno fatto venir voglia di disdire l'abbonamento alla pay tv o, perlomeno, di seguire senza commento i prossimi match. Senza commento, infatti, anche in Napoli-Genoa si sarebbero potuti meglio apprezzare i due falli da ultimo uomo non fischiati su Higuaìn lanciato in porta (col Genoa che poteva restare in 10 uomini già nel primo tempo) e ci si sarebbe potuti godere in tutta la sua lampante evidenza la bella spinta a due mani da dietro di Kucka su Higuaìn (nel gioco del calcio questo è un fallo da rigore). Poi, certo, sul primo gol del Napoli c'è un fuorigioco davvero impercettibile del Pipita, col guardalinee però non ben allineato (questa la vera pecca!) e con l'azione che scorre via velocissima. Ben altra cosa rispetto allo scandaloso fischio mancato in Napoli-Juventus sul gol di Caceres del 2-1 di testa su calcio da fermo.
In particolare, però, proprio intorno al rigore (per me netto) concesso al Napoli è stata operata (fin dal momento della telecronaca in diretta) una impressionante operazione di mistificazione mediatica, con le immagini che smentivano in tempo reale i vari commenti assolutamente campati in aria che le accompagnavano. In tutta onestà, credo che questo Napoli di nuovo terzo da solo e in netta ripresa stia iniziando seriamente a dare fastidio a coloro che, per quanto hanno speso sul mercato, devono per forza di cose entrare in Champions. Roma su tutti.
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mercoledì 28 gennaio 2015

la f.a. cup, le sue mille sorprese e il suo fascino unico

Di Diego Del Pozzo

Alexis Sanchez nel match di Coppa contro il Brighton
In Inghilterra, nello scorso fine settimana, s'è completato un bellissimo quarto turno di F.A. Cup, con le prime tre della Premier League (Chelsea, Manchester City e Southampton) eliminate in casa propria da squadre di rango inferiore (rispettivamente Bradford, Middlesbrough e Crystal Palace; e Mourinho che ha parlato di "vergogna" dopo il pesante 2-4 casalingo); Manchester United e Liverpool costrette al replay; anche Tottenham e Swansea buttate fuori da avversarie di serie inferiori; e il solo Arsenal che è riuscito a qualificarsi vincendo 3-2 ma rischiando sul campo del piccolo e mai domo Brighton and Hove.
Insomma, la Coppa d'Inghilterra si conferma ancora una volta il torneo più affascinante del mondo (oltre che il più antico). Altro che la nostra Coppetta Italia tutela-grandi!
E il 2015 del calcio inglese, tra Capodanno e l'Epifania, era iniziato proprio, come da tradizione, con la disputa dei match del terzo turno di F.A. Cup, torneo dal fascino unico per la sua storia e la sua formula (eliminazione diretta, sorteggio integrale e partecipazione aperta alle squadre di tutte le categorie del football d'Oltremanica, professionistiche e dilettantistiche).
Gli Spartans all'attacco!
La mia squadra di culto di questa edizione è stata certamente quella dei Blyth Spartans, club dilettantistico iscritto alla Northern Premier League Premier Division, cioè il settimo livello nella piramide delle serie calcistiche inglesi (più in basso del nostro campionato d'Eccellenza).
Blyth è una cittadina portuale del Northumberland, nel Nord-est dell'Inghilterra. Fondati nel 1899, gli Spartans giocano nel piccolo e suggestivo Croft Park, caratterizzato dalle tipiche staccionate verdi a bordo campo. Quest'anno sono arrivati al terzo turno della F.A. Cup, dove hanno addirittura sfiorato l'impresa contro il ben più quotato Birmingham City, squadra professionistica che milita nella Championship (l'equivalente della Serie B italiana). Spinti dai loro caldissimi tifosi, infatti, all'inizio dell'anno gli Spartans hanno messo sotto gli avversari nel primo tempo, chiuso avanti di due gol, prima di cedere soltanto nel finale (2-3) a causa dell'inevitabile calo atletico e delle ovvie differenze di talento.
Da parte mia, al fischio finale non ho potuto fare a meno di alzarmi in piedi e applaudire con convinzione i generosissimi Blyth Spartans e, con loro, tutti quelli che giocano ancora a pallone innanzitutto per divertirsi.
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