venerdì 11 settembre 2009

il sinistro di jesus e la "mano de dios"

Di Davide Cerbone

C'è un tempo per la gloria e un altro per la vergogna. Il primo, Diego l'ha vissuto in campo, celebrato come sommo profeta del calcio d'ogni tempo. Il secondo, che pure l'aveva sorpreso più di una volta uomo fragile fino all'estrema conseguenza dell'autolesionismo, non aveva mai scalfito l'aura divina del suo genio pallonaro.
Stavolta, invece, la mano de Dios, quella di Diego Armando Maradona, eroe nazionale fino a qualche giorno fa, non lascia i segni che molti si aspettano sulla squadra che da calciatore, nell'anno di grazia millenovecentottantasei, trascinò alla conquista del Mexico e del mondo.
Quella mano, che punì solennemente l'Inghilterra dell'incredulo Shilton prima che il piede la ubriacasse con la serpentina più leggendaria della storia del calcio, oggi fa più danni che altro. È una mano dal tocco maldestro, più che divino. Eppure, qualche mossa la indovina.
Quella, per esempio, di spedire in campo tale Datolo, che di nome fa Jesus. Questione di affinità? Può darsi. Sta di fatto che l'esterno sinistro del Napoli, additato da tanti come oggetto misterioso - nonché inutile e costoso -, è uno dei pochi a restare a galla nel giorno di un tracollo, quello contro gli eterni rivali del Brasile, che è soprattutto tattico e psicologico. È suo il micidiale sinistro del 1-2 che fulmina Julio Cesar e regala per un pugno di secondi uno squarcio di speranza all'Argentina. La difesa, però, ci mette pochissimo a disfare tutto. Perché per venticinque minuti l'Argentina regge. Anzi, fa addirittura la partita. Ma appena il Brasile all'europea di Dunga accelera, la retroguardia azul y blanca schianta.
Quella di Maradona, di contro, è (nel male) un'Argentina più sudamericana che mai. Con una vocazione tutta poggiata sulla motivazione e sulle invenzioni dei suoi tanti talenti. Che però, senza un'organizzazione degna di questo nome, si smarriscono. Finanche il fenomeno Messi (si giocava nella sua Rosario), nel marasma tattico, scompare.
E la scena, pietosa assai per chi da quella parata di stelle (Messi, Tevez, Heinze, Gago, Aguero, i napoletani Lavezzi e Datolo, oltre ai senatori Zanetti e Veron) si aspettava sfracelli, si ripete qualche giorno dopo ad Asunciòn. Solo che stavolta di fronte non c'è la macchina da guerra verdeoro, ma il non irresistibile Paraguay. Finisce 1-0 per i padroni di casa, che conquistano così il pass per il Sudafrica, mentre la Selecciòn in caduta libera, con Veron espulso all'inizio del secondo tempo e Diego Milito relegato addirittura in tribuna per far posto a Martin Palermo, marcia a larghe falcate verso lo psicodramma. Diego, da combattente indomito quale è, continua a ripetere la litania del "vado avanti". Ma ora, dinanzi all'onta e alla paura, perfino il suo mito, in patria, vacilla.
L'Argentina è ferma a 20 punti, ha davanti quattro squadre (Brasile, Paraguay, Cile, Ecuador) e si è ridotta a sperare nello spareggio con la quarta classificata del girone Concacaf. Così, saranno le ultime due partite, in casa col Perù (il 10 ottobre) e a Montevideo con l'Uruguay (tre giorni dopo), a decidere le sorti di una delle nazionali più prestigiose del futbol mondiale.
E mai come allora, servirà la mano de Dios. Perciò: suerte, Diego; suerte, Argentina. Sapendo, però, che la "suerte", da sola, molto spesso non basta.

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