(La Repubblica - 6 settembre 2010)
E' quasi una deriva giapponese, sia detto senza offesa. Perché viene in mente quando, nelle prime edizioni della famigerata Toyota Cup (vale a dire, il nome che provarono a dare alla gloriosa Coppa Intercontinentale), sulle tribune dello stadio di Tokyo risuonava il tifo in playback, diffuso dagli altoparlanti. Un po' come accade in certi meravigliosi giardini giapponesi, dove neppure una fogliolina è fuori posto e dove, per esempio a Kobe, a volte cinguettano passerotti meccanici. E pure le mai troppo vituperate vuvuzelas, nella recente estate del nostro scontento, non erano tutte vere: venivano infatti sparate dalla regia degli impianti, alzando il volume di questa specie di base sonora da karaoke quando una delle due squadre si avvicinava alla porta avversaria.
I tifosi di plastica sono un risparmio economico, ma più che altro una metafora. Raccontano di un calcio che ha venduto l'anima (ma anche quella parte del corpo appena sotto la cintura dei pantaloni, vista però da dietro) alle tivù, dunque alla virtualità, senza la quale non si sopravvive perché garantisce gli unici soldi freschi, non come le banconote del Monopoli con cui si è svolto l'ultimo mercato, comprando con debiti, con promesse, mica cash. E chissà come saranno contenti i giocatori, visti da occhi disegnati, applauditi da mani dipinte: anche se poi i loro stipendi li pagano le televisioni, dunque il cerchio è chiuso. Come la curva.
Veramente bello questo pezzo. In mezza pagina, il giornalista di Repubblica è riuscito a dire cose molto più interessanti sul rapporto tra società di calcio e tifoserie di quelle che normalmente sentiamo ripetere nei soliti show televisivi. Potere della stampa (buona).
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