(Il Mattino - 19 agosto 2011)
Una prova d’attore, davvero. Quando smetterà col calcio, se smetterà, a Hollywood lo aspetteranno a braccia aperte, perché ha la caratteristica che conta di più sulle scene e sui set: agisce e dimentica, recita e smarrisce, oltre ad essere un mentitore, un inguaribile bugiardo, capace di sposare tesi e campagne contro complotti e soprusi inesistenti. In questo ricorda le sceneggiate di Merola, piange e finge di non vedere quello che gli sta intorno, per ergersi a eroe. Ma prima di scadere nel melodramma, è stato molte cose, sempre facendo l’allenatore: un pistolero a Milano, un agente del Kgb a Londra, e ora un barricadero a Madrid. Prima: un Trintignant a Barcellona (conservando verso la città e la squadra un rancore da figlio non compreso, rimarrà un gregario), un professore di successo in Portogallo. Ha il pregio di aver capito che il calcio è una religione, lui si è fatto santone, e recita la parte. Muove crociate, nel caso fa rimuovere cardinali del peso culturale di Jorge Valdano (ex dg del Real Madrid), pur di avere ragione, ha abolito una diarchia che aveva nell’argentino la correttezza del calcio old, a favore di una tirannia della parola e del gesto new. Ha l’arroganza di Charlie Chaplin, anche se poi si mostra docile davanti alle telecamere, arguto e ironico quando serve, colto al punto giusto. Ha capito che il Barcellona è una griffe del calcio, una sorta di Gandhi del fútbol, ed è andato a sedere sulla panchina del torto. E quando Piqué dichiara che: "Mourinho es una lacra para el fútbol", un flagello per il calcio spagnolo, diventa funzionale alla sua tesi, che va in scena - senza distinzione - tra campo e conferenza stampa.
Mourinho ha capito che le partite si vincono anche a parole, come Alì con gli incontri di boxe, solo che il pugile non aveva sulla sua strada un miracolo, di organizzazione. Dopo ogni partita col Barça, sembra il killer di Pulp Fiction: Samuel L. Jackson, che non si capacitava del miracolo di non aver preso la pallottola, e voleva smettere. Ma era costretto a continuare. Dopo i precedenti, con un solo risultato a favore, ogni volta che gli tocca affrontare il Barcellona, deve inventarsi qualcosa di diverso, per poi perdere, quasi che quelle partite avessero la strada segnata e il finale anche. Non potendo fare altro, Mourinho c’ha messo un dito, negli occhi di un incolpevole, quasi una rappresaglia da bimbo, un capriccio da divo. Recitando la parte di quello che non sa perdere, facendo un uso sconsiderato delle mani, le stesse che dovevano fare di una banda - il Real Madrid - una orchestra. Pur di non mostrare questa impresa che non riesce, questa trasformazione che non avviene, Mourinho si antepone, con performance dadaiste, seguite da calembour sui nomi degli avversari, che finiscono con il tradimento della realtà, proprio come al cinema. Ha nel suo repertorio molte varianti dello stesso personaggio, che però finiscono sempre allo stesso modo, consumando pubblico e critica. Anche per questo cambia spesso città.
E se è vero che gli sono riuscite imprese impossibili, come con Inter e Porto (anche Liz Taylor ha vinto due Oscar), sembra quasi che per lui sia più importante battere il Barcellona che ripetere quelle imprese, e qui pare recitare la parte dell’emigrante che deve avere il riconoscimento nella città che lo ha visto povero con le pezze al culo.
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