(La Gazzetta dello Sport - 18 febbraio 2011)
Il magnifico Arsenal di mercoledì è nato così, attraverso il reclutamento di talenti verdi - si chiama scouting, in passato i londinesi hanno anche ecceduto "rubando" ragazzi ad altri club - ai quali Wenger ha dato un gran gioco da praticare e soprattutto lo spazio per farlo. Affidandosi senza paura ai giovani, la società nel frattempo ha capitalizzato dalle cessioni di Vieira, Henry, Adebayor, Cole e tanti altri il denaro per costruire uno stadio nuovo. In Italia sarebbe stato impossibile perché non si cura più il vivaio come fa il Barcellona e perché le grandi non hanno uno scouting all'altezza come l'Arsenal. Ma la cosa grave è che la storia delle nostre società racconta un passato virtuoso. Nel grande Milan di vent'anni fa venivano dal vivaio Baresi, Maldini, Costacurta, Galli e Albertini, mentre una politica dei giovani talenti appartenne prima alla Juve degli anni '70 e poi alla Samp degli anni '80. Se guardate all'età in cui i vari Fabregas, Walcott e Van Persie sono arrivati all'Arsenal, balza all'occhio il coraggio col quale Wenger li ha lanciati in prima squadra; a costo di non vincere nulla per un po', ma con la prospettiva ormai realizzata di competere col Barça.
Un'obiezione frequente a questo discorso è che i giovani all'estero sono pronti prima. Okay, ma non è un caso. Semplicemente, nelle nostre giovanili lo sviluppo del giocatore lascia il passo troppo presto allo sviluppo della squadra, ovvero lo studio della tattica prevale sulla cura della tecnica. Estasiato dai fondamentali dei suoi nazionali, Alberto Zaccheroni ci ha raccontato che sino ai 20 anni in Giappone i ragazzi pensano solo a migliorare i piedi; in Italia il 4-4-2 viene fatto entrare a forza nelle teste già a 14, trascurando lo stop, il dribbling e il resto di capacità nel quale un tempo eravamo i maestri al pari dei brasiliani. Le squadre anziane non corrono - questa è un'ovvietà - e spezzettano il gioco per risparmiare le energie; poi vanno in Europa, trovano rivali come Arsenal e Barcellona (Rizzoli ha concesso 2' di recupero complessivi, tanto si era giocato), ma anche Tottenham, e al quarto d'ora sono già in asfissia. E' un prezzo che paghiamo alla nostra proverbiale furbizia: più in campionato ci si rotola per terra agonizzanti, meno nelle coppe si regge il passo di chi corre per 90' .
Infine - ma è un'esca per riparlarne - un aneddoto raccontato da Valter Di Salvo, ex preparatore atletico di Lazio, Manchester e Real: "Ricordo la prima partita sulla panchina dello United. A dieci minuti dalla fine la squadra vinceva 1-0, Ferguson ordinava ai terzini di continuare a sostenere l'attacco, e dentro di me dicevo "Ma perché non ci copriamo, è quasi fatta...". Tempo dopo raccontai a Sir Alex della mia tremarella, e lui mi convinse che non aveva senso. "Cercando altri gol può capitare una volta di subire il pareggio, ma è un prezzo che va pagato. Non esiste una via diversa dal calcio d'attacco per dare una mentalità vincente ai ragazzi"...". E siamo al bivio culturale: in Europa si pensa che per vincere occorra segnare un gol in più, in Italia (con eccezioni tipo l'Udinese o certi momenti dell'Inter di Leonardo) subirne uno in meno. Ma se va bene così, perché gli stadi degli altri sono pieni e i nostri vuoti?
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