giovedì 12 febbraio 2015

coach "pop", coach rafa e la costruzione di un ambiente vincente

Di Diego Del Pozzo
(Il Napolista - 11 febbraio 2015)

Le mille vittorie in carriera ottenute nella notte italiana di lunedì da Gregg Popovich alla guida dei suoi San Antonio Spurs, l’unica squadra allenata in 19 anni come head coach Nba, sono l’occasione perfetta per qualche riflessione sulle caratteristiche necessarie per la costruzione di un team e di un ambiente vincenti.
Gregg Popovich
Innanzitutto, va ricordato che da lunedì notte l’uomo chiamato “Pop” – tre volte coach dell’anno (2003, 2012, 2014) e cinque titoli di campione in bacheca (1999, 2003, 2005, 2007, 2014) – è diventato appena il nono tecnico nella storia del basket Nba a raggiungere il traguardo dei mille successi in carriera; nonché il secondo, dopo Jerry Sloan con gli Utah Jazz, a farlo alla guida di una sola squadra e il terzo per la velocità con la quale è riuscito a toccare la fatidica soglia: in 1.462 gare, contro le 1.434 di Pat Riley e le 1.423 di Phil Jackson. Lo ha fatto costruendo, assieme al general manager RC Buford, un meccanismo perfetto che probabilmente non ha eguali nel mondo degli sport professionistici americani: una franchigia nella quale tutti remano dalla stessa parte e anche le star mettono da parte il proprio ego e sono inserite in un contesto nel quale tutto ruota intorno al concetto di gruppo.
Si tratta della celeberrima Spurs Culture, che Flavio Tranquillo (la voce italiana del basket Nba) prova a definire così, nel suo bellissimo libro di recente uscita Altro tiro, altro giro, altro regalo: «Un concetto ben più ampio del segretissimo elenco di giochi offensivi, regole difensive e precetti di comportamento che da essa discendono come le altre leggi si rifanno alla Costituzione tramite la gerarchia delle fonti. Cosa sia questa Spurs Culture possono saperlo nei dettagli solo gli adepti dell’organizzazione; a noi deve bastare conoscerne l’esistenza e rilevarne qualche rara manifestazione esterna. […] Solo andando al di là delle apparenze e ragionando oltre l’immediato si crea qualcosa di stabile e duraturo, tipo una cultura o un sistema. […] Non c’è Dinastia cestistica che non abbia utilizzato i termini “cultura” e “sistema” per spiegare le proprie vittorie, proprio come le aziende di successo. […] Il sistema e la cultura sono i mezzi migliori per raggiungere il risultato, non un omaggio alla democrazia ateniese. […] Sono i concetti di team building e sense of belonging (senso di appartenenza) che tanta diffusione hanno in economia aziendale, non in filantropia. Per vincere ci vogliono ruoli chiari, delineati dall’allenatore e condivisi, per forza e/o amore, dai giocatori. Chi non si conforma ai valori dell’impresa, in spursese si dice corporate knowledge, può già mettere sul letto la valigia di un lungo viaggio». E, non a caso, la Spurs Culture è incarnata proprio in colui che rappresenta la massima stella della franchigia texana, quel Tim Duncan che è l’emanazione stessa di Popovich sul parquet e che col coach (ex agente della Cia, mai dimenticarlo!) ha condiviso addirittura 929 delle sue mille vittorie.
Naturalmente, per essere correttamente applicati, i concetti di “sistema” e “cultura” richiedono tempo, pazienza, fiducia e maturità da parte dell’ambiente circostante, senza sondaggi contro o campagne stampa alle prime difficoltà. Si tratta di quella stessa pazienza e maturità che ha permesso a Gregg Popovich di costruire in tre anni (dal 1996 al 1999) la squadra del primo titolo di San Antonio (a Napoli sarebbe stato esonerato al secondo anno) e che, più di recente, gli ha permesso di tenere ben saldo il timone tra le mani nonostante l’assenza di titoli tra il 2007 e il 2014 (con tanto di sanguinosa finale 2013 persa contro Miami). D’altra parte, proprio queste sono le medesime caratteristiche che, tornando in ambito calcistico, hanno fatto sì che un giovane Alex Ferguson (non ancora Sir) potesse restare sulla panchina del Manchester United dal novembre 1986 per tre anni e mezzo senza vincere nulla, fino alla F.A. Cup conquistata a maggio 1990, soltanto il primo dei tantissimi trofei poi vinti nei suoi leggendari 26 anni a Old Trafford. O che Arsène Wenger continuasse a guidare con mano salda l’Arsenal per vent’anni (li festeggerà ad agosto), nonostante gli “zero tituli” ottenuti tra il 2005 e il 2014.
Morale della favola: quando si trova un grande coach capace di costruire un sistema o dare vita a una cultura (molti lo chiamano “progetto”) bisogna tenerselo stretto, a tutti i costi, aspettando prima di lanciarsi in processi sommari che, dopo pochi mesi, rischiano di trasformarsi in dolorosissimi boomerang.

spirito di gruppo...

Vittoria in scioltezza contro una discreta Udinese, da squadra matura e senza sprecarsi più di tanto.
Prima o poi anche a Sky Sport se ne faranno una ragione...

mercoledì 11 febbraio 2015

la serie a è sempre più provincia: una mia riflessione "napolista"

Di Diego Del Pozzo
(Il Napolista - 30 gennaio 2015)

La cessione di Cuadrado al Chelsea da parte della Fiorentina rappresenta l'ennesima stridente conferma dell'attuale status della Serie A italiana, che nella considerazione degli addetti ai lavori internazionali è, ormai, al medesimo livello del campionato olandese o di quello belga: tornei buoni per far crescere i giovani talenti e i campioni del domani, in modo da poterli poi acquistare appena questi salgono di livello e, al tempo stesso, aumentano le loro pretese economiche.
In un contesto di questo tipo, temo che la maggior parte degli osservatori italiani e, purtroppo, anche la quasi totalità dell'ambiente napoletano non abbiano dato il giusto peso (che è enorme) all'acquisto di Gonzalo Higuaìn da parte del Napoli, che nell'estate 2013 è riuscito a strapparlo addirittura al Real Madrid, pagandolo ben 40 milioni (senza prestiti o formule astruse) e convincendolo a lasciare un torneo di prima fascia come la Liga per venire a giocare nella derelitta Serie A. Naturalmente, per la riuscita di una simile operazione di mercato è stata fondamentale la presenza di Rafa Benitez sulla panchina azzurra.
Ma, sia come sia, era dai tempi del passaggio di Eto'o (quello vero, non questo del 2015) dal Barcellona all'Inter di Mourinho (peraltro, nell'ambito di uno scambio con Ibrahimovic) che una stella conclamata del calcio internazionale non lasciava un top club straniero per venire a giocare in Italia. Da allora, in Serie A sono arrivati soltanto talenti in rampa di lancio (Pogba, Kovacic, Iturbe, Marquinhos, Morata, ecc.), calciatori di livello medio-alto provenienti da squadre medie (Vidal, Llorente, Medel, Gervinho, Biglia, Djordjevic, Joaquin, ecc.) o stelle stagionate pronte a sparare le ultime cartucce delle loro gloriose carriere (Klose, Essien, Saviola, Evra, Cole, ecc.). Il caso Tevez-Juventus è differente, perché i bianconeri lo hanno preso a condizioni assolutamente di favore mentre era fuori rosa (da mesi) nel Manchester City. E, comunque, in Italia l'Apache ci è giunto da trentenne.
L'acquisto di Gonzalo Higuaìn da parte del Napoli, dunque, costituisce assolutamente un unicum per una squadra di Serie A di questi anni. E già soltanto per una simile operazione di mercato, capace di sprovincializzare l'asfittico panorama calcistico italiano, il Napoli meriterebbe una considerazione maggiore da parte degli addetti ai lavori.

a madrid comanda ancora l'atletico di simeone

Di Diego Del Pozzo

Dopo il derby di sabato pomeriggio andato in scena al Vicente Calderòn, Madrid resta biancorossa.
L'Atletico di Simeone, infatti, ha asfaltato letteralmente il Real capoclassifica con un roboante 4-0, frutto di due gol per tempo e ideale per ricordare agli avversari (a tutti: anche al Barcellona) che gli indomiti Colchoneros sono ancora la squadra campione di Spagna in carica. E che, per la vittoria finale nella Liga, bisognerà continuare a fare i conti anche con loro.
Il Real ha subìto dall'inizio alla fine il ritmo e la voglia di vincere dell'avversario e ha fatto il primo tiro nello specchio della porta addirittura all'82esimo minuto. E il risultato sta persino stretto agli uomini di Simeone, che si sono visti negare un rigore evidente e sono stati fermati mentre andavano in porta per un fuorigioco inesistente.
Ancelotti adesso dovrà parlare molto seriamente con i suoi campioni, oggi completamente assenti dal campo. Anche perché all'orizzonte c'è anche la ripresa della Champions League.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

un week-end a tutto derby in premier league

Di Diego Del Pozzo

Lo scorso fine settimana di Premier League è stato monopolizzato da due tra i derby più tradizionali e sentiti dell'intero panorama calcistico britannico e internazionale.
Il primo, quello di Londra Nord tra Tottenham e Arsenal, è stato vinto 2-1 dagli Spurs, meritatamente, rimontando lo svantaggio iniziale siglato da Özil nel primo tempo grazie a una doppietta di Harry Kane (qui nella foto) nella ripresa, dominata dagli uomini di Pochettino, capaci di sfiorare il gol a ripetizione e di schiacciare i Gunners nella loro metà campo.
Come al solito in match di questo tipo, si sono visti ritmo elevatissimo e zero pause, voglia di vincere da parte di tutte e due le squadre (tra le più in forma della Premier League), tante belle giocate realizzate a velocità superiore e ambiente fantastico sugli spalti di White Hart Lane.
Il Tottenham ha vinto perché ha mostrato più voglia dell'Arsenal e, soprattutto, ha potuto contare su questo Kane sempre più maturo e decisivo: 21 anni e mezzo appena, centravanti moderno, forte fisicamente ma agile e veloce, dotato di buona tecnica e straordinaria volontà di primeggiare. È tra le stelle emergenti del panorama calcistico internazionale e, se prosegue su questa strada, sarà tra i dominatori dei prossimi anni. Intanto, alla sua prima presenza nel North London Derby, lo ha risolto alla maniera dei predestinati.
L'ultimo Merseyside Derby della carriera di Steven Gerrard (che a fine stagione lascerà i Reds) s'è concluso, invece, 0-0 nella magnifica cornice di Goodison Park. Il pareggio non serviva né all'Everton né al Liverpool e, infatti, le due squadre hanno provato a superarsi fino al fischio finale.
Ai punti, si sono fatti preferire gli uomini di Brendan Rodgers, che hanno concluso per sei volte nello specchio della porta avversaria (colpendo anche un palo, nel primo tempo). I Toffees di Roberto Martinez, però, hanno rischiato il colpaccio nei minuti finali, quando Coleman ha costretto Mignolet a una parata decisiva.
In ogni caso, pur restando tutte e due lontane dalla vetta della Premier League, Everton e Liverpool anche stavolta hanno offerto uno spettacolo da calcio inglese puro, fatto di ritmo quasi ossessivo, tanta corsa, agonismo feroce, pochi tatticismi e inesauribile voglia di vincere. Ce ne fossero di match così anche alle nostre latitudini...
 © RIPRODUZIONE RISERVATA